Nel 2017 è aumentato il numero di borse post laurea assegnate, tornando ai livelli del periodo ante crisi. Le condizioni degli assegnisti di ricerca restano, tuttavia, drammatiche e soltanto un ricercatore su dieci può aspirare a un contratto a tempo indeterminato all’interno dell’università italiana.
È stata presentata alla Camera dei Deputati la settima Indagine sul dottorato universitario e il post doc, realizzata dall’Associazione dei dottori di ricerca italiani (Adi). Dall’indagine emergono i risultati disastrosi di dieci anni di tagli alla ricerca e all’università italiana, tagli cui neanche il notevole aumento del numero di borse post laurea assegnate è in grado di sopperire del tutto.
Dagli scorsi anni, infatti, il numero di borse di ricerca assegnate ha raggiunto i livelli del 2014, con un numero di circa 9250 di borse post laurea e un aumento di circa il 5,5% rispetto allo scorso anno. Si tratta di un timido segnale di ripresa, specialmente se si prende in esame il sostanziale calo dei posti offerti rispetto a dieci anni fa, registrando una diminuzione di circa il 41,2% che ribadisce ancora una volta come, per ogni piccolo passo fatto dall’università italiana per avvicinarsi agli standard europei, persistano almeno il doppio delle problematiche e dei cavilli ancora da risolvere.
Non a caso, dal report di Adi è emerso l’ennesima spaccatura all’italiana tra Nord e Sud, presentando una situazione di dislivello marcato tra gli atenei del Meridione e quelli delle regioni settentrionali. Tra le novantuno università posti sotto la lente d’ingrandimento del Miur, effettivamente, soltanto dieci garantiscono ben il 42% dei posti di dottorato offerti, con una netta concentrazione al Nord (con il 49%), mentre il Centro e il Sud si attestano, rispettivamente, al 29 e al 21%.
Diminuiscono, inoltre, i posti di dottorato senza borsa, vale a dire a dire quelli senza finanziamento che ricadono interamente sulle tasche dei dottorandi. Solo nell’ultimo anno i “gratuiti” sono passati dal 23,8 al 17,7%, il livello più basso dal 2017. Al contempo, però, si moltiplicano gli atenei europei che applicano una tassazione sui dottorandi, dai diciannove del 2016 si è giunti ai ventuno dell’anno in corso, dodici dei quali non prevedono alcuna fascia di reddito. Se alcuni obiettano che la tassazione media si attesta intorno ai 600 euro, è vero altresì che persistono enormi differenze tra le diverse università, aggirandosi tra i 100 euro dell’Università di Udine ai 2230, 58 euro dell’Università di Reggio Calabria.
Sul versante post doc, vale a dire dei laureati già alla fase successiva al dottorato, i dati non sono affatto incoraggianti, bensì mostrano come gli assegnisti di ricerca nelle università dello Stivale restino pressoché stabili, evidenziando una situazione di stagnazione che si aggrava ulteriormente andando verso Sud. Dei poco più di 13mila assegnisti italiani, cui l’assegno può essere replicato solo per sei anni, il 58% si trovano al Nord, il 26% al Centro e il 20% al Meridione.
Non solo, grazie alla riforma Gelmini, che impone il rinnovo dell’assegno non oltre i sei anni, soltanto il 9,2% degli assegnisti potrà aspirare a un contratto a tempo indeterminato nel prossimo futuro, mentre il restante 90,8% dovrà cambiare professione o emigrare all’estero. Si tratta dell’ennesima sconfitta per l’università italiana, la quale, nel giro di pochi anni, si troverà di fronte all’impossibilità di sopperire al ricambio generazionale dovuto ai numerosi pensionamenti, sferrando l’ennesimo colpo di grazia alla ricerca nel Bel Paese.
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