La macchia solare scoperta nel 2016 torna a far parlare di sé, grazie ad una ricerca condotta dall’Inaf di Catania in collaborazione con l’Università.
A distanza di un anno ci sorprende ancora: prima per la forma, insolita e tenera, adesso per ciò che contiene – o meglio conteneva: una macchia solare esiste da qualche giorno a qualche mese. E possono essere grandi svariate volte la Terra. Ma partiamo dal principio: cosa sono le macchie solari? Lo spiega proprio il dott. Salvo Guglielmino, che si è occupato dello studio.
“Il Sole è l’unica stella (per adesso…) della quale riusciamo a osservare i dettagli della superficie. Le macchie solari, che sono la caratteristica più particolare quando si osserva il Sole (ovvero, la fotosfera del Sole), sono formate da una regione più scura detta ombra e una attorno ad essa, detta penombra.”, ha dichiarato a Media Inaf, il notiziario online dell’Istituto Nazionale di Fisica.
“Occasionalmente, – ha spiegato – all’interno dell’ombra delle macchie appaiono una o più strutture brillanti che separano più o meno nettamente l’ombra in più regioni scure, talvolta a partire dalla zona di Sole quieto al bordo della macchia stessa.”
Esattamente, ovvero, come avvenuto nel “cuore” apparso nell’aprile 2016. Essi, per evitare confusione, vengono chiamati “filamenti di penombra“. E per quanto riguarda il materiale che li forma?
“Sono tutte strutture formate da plasma magnetizzato – ha affermato il dott. Guglielmino, – il risultato dell’interazione tra il campo magnetico del Sole e il plasma che forma la nostra stella, che per le particolari condizioni fisiche sono l’uno ‘congelato’ all’altro: un cambiamento della configurazione magnetica determina una variazione nelle condizioni dinamiche del plasma, e viceversa.”
Ci potremmo chiedere come nascono.“Essi si formano solitamente per riconnessione magnetica tra le arcate magnetiche dovute ai campi magnetici in emersione. Di solito appaiono più scuri perché sono più densi del plasma cromosferico circostante. Di solito connettono regioni magnetiche di polarità opposta, spesso lontane tra loro. Possono essere lunghi svariate volte il diametro della Terra”, ha precisato il dott. Guglielmino.
“I light bridge di solito hanno struttura granulare, per effetto della convezione. – continua a spiegare Guglielmino – Nel nostro caso, invece ha una struttura filamentare, nel senso di filamenti di penombra. In altri casi, al di fuori dalle macchie, si è visto che se un filamento (cromosferico) tocca la fotosfera, in corrispondenza si formano filamenti di penombra. Questa è la prima volta che si ha evidenza di un fenomeno similare all’interno di un’ombra. Inoltre, un light bridge è normalmente caratterizzato da un campo magnetico meno intenso che nell’ombra circostante, e con la stessa polarità. Se fosse di polarità opposta ad essa, infatti, non potrebbe essere una struttura a lungo in equilibrio. Invece, nel nostro caso, abbiamo una struttura con un intenso campo magnetico orizzontale e in larga parte di polarità opposta alla macchia. Ciò è compatibile con una struttura attorcigliata (con un forte twist) del filamento soprastante, che si adagia sull’ombra.”
La ricerca è stata condotta tramite le immagini del satellite SDO, che osserva il Sole sia in fotosfera che in cromosfera e corona. Il fenomeno è stato osservabile per non più di cinque giorni, dato che poi per effetto della rotazione, la macchia è tramontata. Incredibile come sia stato possibile osservarne questi strabilianti effetti.
È possibile leggere la ricerca del dottor Guglielmino e del suo team qui: https://arxiv.org/abs/1708.02398.
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