CINEMA – Italo e l’intervista alla regista modicana Alessia Scarso
“Italo”, uscito nelle sale cinematografiche il 15 Gennaio, è una storia semplice ma ricca di emozioni, di sensazioni e ricordi. E’ una storia realmente accaduta, quella che la regista Alessia Scarso ha scelto di raccontare all’interno del suo film, con un cast composto da Marco Bocci, Elena Radonicich e Barbara Tabita e il cui protagonista assoluto è appunto Italo, un meticcio tipo labrador. Alessia è una ragazza trentenne modicana diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e attualmente vive tra Modica e la Capitale. Ha scelto di portare in scena il proprio territorio, girando le scene a Scicli, in provincia di Ragusa, luogo in cui realmente la storia si è sviluppata, rappresentando i posti che in un certo senso le appartengono. Italo è un cane randagio che arriva a Scicli, non si sa da dove, in un momento di paura per la cittadinanza tutta poiché da poco un gruppo di cani randagi aveva aggredito alcuni bambini e la morte di uno di loro aveva portato alla decisione da parte del comune di abbattere la specie. Italo dunque non riesce ad essere subito accettato dalla comunità, ma nonostante sia un randagio, è diverso dagli altri. E’ buono, dolce a tal punto da diventare parte integrante della società, a poco a poco. E’ un film che trasmette la speranza di credere in qualcosa di migliore e positivo, una speranza da conquistare attraverso quel sentimento puro e incondizionato che è, probabilmente, la nostra ancora di salvezza, ossia l’amore. Il filo conduttore della storia risiede proprio nello sperimentare, conoscere e vivere l’amore, in tutte le sue sfaccettature: Italo ricongiunge varie vite, ricompone tasselli, abbattendo ogni muro dell’indifferenza, dell’odio e dell’orgoglio, essendo capace, infine, di unire un’ intera città. Attraverso la voce fuori campo di Leo Gullotta e attraverso i luoghi di una cittadina barocca di una bellezza intima e spettacolare allo stesso tempo, patrimonio dell’Unesco, si percepisce un’atmosfera quasi magica. Noi di Liveunict, abbiamo voluto approfondire un po’ lo sviluppo della storia, le scelte della regista, con la stessa Alessia Scarso che, con immensa disponibilità, ha accettato di rispondere alle nostre domande.
E’ una storia di tenerezza ed emozione quella narrata all’interno di Italo. Come mai la scelta di narrare proprio questa vicenda per il suo esordio da regista di un lungometraggio? Come ha conosciuto la storia?
«Sono modicana ma vivo a Roma. Forse non tutti sanno che Italo, randagio di un’intelligenza straordinaria, aveva un addetto stampa. Un giornalista che raccontava le sue abitudini e passo passo le sue gesta. Da Roma potevo leggere di lui e mi sono molto incuriosita. Dunque alla prima occasione sono andata a trovarlo e si è comportato con me come si comportava con tutti i turisti: mi ha fatto compagnia in giro per Scicli per un intero pomeriggio. E’ stato un colpo di fulmine. Nel frattempo in quel periodo cercavo una storia per il debutto al lungometraggio. Cercavo una storia d’amore forte. E lui è diventato la mia storia d’Amore con la A maiuscola».
Italo, il protagonista assoluto della storia, è riuscito a ricongiungere varie vite, a unire e consolidare una cittadina intera, ovvero Scicli, cancellando i rancori e i contrasti. Dunque il suo film potrebbe essere letto come un messaggio di speranza? Si potrebbe pensare che un “Italo” capace di elargire del bene possa esserci in ogni ambiente in cui ce ne sia bisogno?
«L’immaginario collettivo spesso vuole riferimenti ai cani con frasi tipo “Solo come un cane”, che denotano che un cane nella gerarchia della società acquisisce importanza pari a niente. Io sono stata testimone di un fatto incredibile, dopo la psicosi da randagismo nata dopo i fatti del 2009 a Scicli (un branco di cani randagi ha attaccato e ucciso un bambino): il sindaco di Scicli, a nome della città, per difendere Italo lo ha microcippato e lo ha adottato a nome del paese intero. Questo è un cambiamento importante, che ho voluto seminare tra i personaggi del soggetto del film. Si, fondamentalmente il messaggio è di speranza, perché si può essere sempre migliori e l’esempio ci può anche venire dall’ultimo degli ultimi, appunto da un cane».
Quanto è stato difficile dare concretezza al suo progetto? Cosa si sente di dire ai tanti giovani che conservano sogni, lavorano sodo per raggiungere obiettivi, eppure sentono lo scoraggiamento che questo periodo inevitabilmente porta con sé?
«Certe volte mi guardo indietro e analizzo la strada che ho percorso. Mi chiedo: avrei le forze per ripercorrerla? Questa professione assorbe ogni goccia di sudore del corpo, consuma ogni neurone del cervello. Sul set ogni giorno mi chiedevo se ce l’avrei fatta. Ogni sera mi chiedevo come avevo fatta a farcela. Alla fine delle lavorazioni mi è sembrato un miracolo aver terminato. Qualcuno grida al trovarsi nel posto giusto e al momento giusto e non mi sento di contraddirlo. Ma se in quel momento lì non sei più che pronto, di formazione e di esperienza, l’occasione per quanto rara ti può far fare pochi passi.
Bisogna essere pronti a sacrificare molte cose. E pronti a portare caffè, riempire bottiglie d’acqua, ritirare sceneggiature alle 4 del mattino a casa del regista, osare di nascosto, farsi trovare sempre attenti, nella fase di gavetta, di esperienza, anche se hai già in tasca un diploma importante come quello del Centro Sperimentale».
Ho letto che il suo è un cast al femminile. Si è trattato di una scelta o di un caso?
«Le colonne portanti iniziali del film siamo state tre donne, produttrice, sceneggiatrice e me regista. Abbiamo scelto il resto del cast tecnico sulla base dell’esperienza e della qualità tecnica. Caso ha voluto che il direttore della fotografia, Daria D’Antonio, fosse donna. E che lo fosse anche una delle scenografe, Maria Rosa Carpinteri. E che lo fossero in molte, poi. Donne incredibili che nulla hanno da invidiare alla resistenza di un uomo, e portatrici di una sensibilità probabilmente più raffinata rispetto a quella di un uomo. Sono molto contenta di come abbiamo lavorato, ma non sono una persona che fa della femminilità un requisito. Il primo requisito è la bravura e l’esperienza».
Quanto è stato bello girare il proprio primo film in una cittadina gioiello quale Scicli è, nonché all’interno del proprio territorio, essendo lei modicana?
«Scicli ci ha accolti come solo qui nel Sudest ho visto accogliere. Anche la sua conformazione che sembra abbracciare e proteggere il centro storico, quella via Mormina Penna preservata dalle automobili e divenuta un salotto a cielo aperto, sembra dare manifestazione di accoglienza. Inoltre Scicli è una cittadina incredibilmente bella, non a caso il suo paesaggio è interpretato da Guccione e dal gruppo di Scicli.
La luce che si viene a creare tra le vie barocche, nelle campagne piene di carrubi, è gioia per gli occhi, sia del direttore della fotografia che la interpreta, ma soprattutto per gli spettatori che la fruiscono.
La mia città è a pochi chilometri, ovviamente mi sono sentita a casa, ma la bellezza dell’accoglienza sciclitana è stata che anche tutti gli altri membri del cast e della troupe si sono sentiti accolti.
Sono contenta poi di aver avuto l’occasione, girando in casa, di poter raccontare la mia terra per come l’ho vissuta io, autentica, genuina, accogliente, lontana dalle “ammazzatine”, dalla reticenza e dagli stereotipi con cui solitamente viene raccontata la Sicilia. E infatti il territorio si è sentito subito autenticamente rappresentato e di questo sono molto felice».
Ultima domanda: prossimi progetti cinematografici?
«Lavorare ad un soggetto così complicato per un’opera prima, dove si gestisce un animale sul set e molti bambini, mi ha molto provata. Credo di aver dato tutta me stessa in questi tre anni di lavorazione, considerato che ho avuto un piede in produzione, uno in scrittura e poi ho gestito tutto il resto della messa in scena, montaggio e postproduzione. La sensazione adesso è quella di grande soddisfazione, soprattutto nel rapporto con gli spettatori, ma anche di svuotamento. Mi sento come se avessi tirato fuori quasi tutta l’ energia, e adesso sento il bisogno di un periodo di ricarica, sia di energia fisica che di idee per i progetti futuri.
Serve un viaggio e tanti libri da leggere. Un periodo di ricarica per preparare l’opera seconda».
Rita Vivera
Rita Vivera nata a Comiso (RG) il 17/06/1990, attualmente studia Giurisprudenza presso l'Ateneo di Catania. Determinata a perseguire i suoi obiettivi, tra lo studio di un diritto e un altro, ama scrivere in particolare di attualità, di politica e di musica.
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21 Novembre 2024
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