I due volti dell’artista in un’intervista esclusiva
A inizio mese, il 2 giugno, uno degli eventi musicali più rilevanti del territorio catanese, è stato il ROCK REPUBLIC³, un concertone di musica live no stop che quest’anno è giunto alla terza edizione. Organizzato dall’associazione culturale e musicale LAB.I.M., sul palco della piazza dei Vespri Siciliani nella cittadina di Linguaglossa (CT), tra gli ospiti ha spiccato la personalità controversa e particolarissima del cantautore Mapuche, nome d’arte di Enrico Lanza, edito da Viceversa Record.
CHI E’:
“Enrico Lanza è l’anima di Mapuche. L’idea nasce in una stanzetta con chitarre scordate e una voce piena di ragni, di granchi, di rane e altre cose un po’ strane, per gioco e per amarezza.
Del 2008 è il primo provino di tre brani. L’anno successivo esce La parte peggiore, a cura di Alessandro Aiello (Canecapovolto) e Sebastiano Pennisi: un video interamente basato sulle canzoni di Mapuche.
L’aprile 2011 è la volta del primo EP ufficiale, Anima Latrina, edito da Doremillaro (sb) Records e fatto di cinque tracce chitarra e voce.
Poi L’uomo nudo, in uscita a fine dicembre 2011 su Viceversa Records. Il disco è stato registrato al Vertigo Studio di Toti Valente nella campagna siracusana, tra strade sterrate e odore di limoni, con la produzione artistica di Lorenzo Urciullo (Colapesce). Undici tracce in lingua italica: undici canzoni sospese tra ironia e rabbia, in cui Mapuche vuol svelarsi in altrettanti aspetti diversi di sé. Ecco perché L’uomo nudo.
L’autore, Mapuche, è nato e cresciuto a Catania.”
(cit. da http://www.rockit.it)
Lunaspina l’ha intervistato per LiveUniCt.
Hai studiato musica o hai imparato a suonare da autodidatta? E come mai proprio la chitarra?
Più da autodidatta che altro. La chitarra è stata il secondo amore, ho iniziato suonando il pianoforte, che ho poi lasciato perché ascoltando punk e grunge, lo strumento che più vi si prestava era proprio la chitarra.
Dopo la tua esperienza all’interno di una band con i Tramuntana (musica folk in dialetto), Mapuche nasce come progetto solista di un cantautore solitario. Perché questa scelta? E’ una via più facile o più tortuosa rispetto a quella di metter su una band?
Come hai detto tu ero in una band, dove però i testi ero io a scriverli. Diciamo che in quel momento avevo trovato le persone adatte ad esprimere certe cose al mio posto. Nel progetto Mapuche invece non trovavo nessun altro adatto a cantarle a parte me. Andavano fatte in un certo modo e così ho deciso di rischiare in prima persona. In una band è difficile mettere tutti d’accordo. Chi fa da sé, fa per tre.
In un’intervista hai parlato delle responsabilità della figura del cantautore. “Forse non abbiamo più bisogno di maestri di pensiero”, hai detto. Tu ti reputi un “maestro di pensiero”? E quale responsabilità, da cantautore quale sei, ritieni di avere addosso?
I tempi sono cambiati. Paradossalmente oggi non c’è più bisogno di quella figura, perché non c’è più quel coinvolgimento. Un tempo le persone stavano molto più attente ai cantautori, a quello che dicevano. Era importante, quello che pensava un cantautore, mentre oggi è una figura marginale. No, non mi ritengo un maestro di pensiero. Anche volendo, non c’è manco l’utenza necessaria a poter trasformare un cantautore in un maestro di pensiero.
E non pensi sia compito dei nuovi cantautori, delle nuove generazioni cui tu appartieni, di riportare il cantautorato in auge? La funzione educatrice della musica, la responsabilità dell’artista di educare il pubblico alla buona Musica, ci sono ancora, o sono passate di moda anch’esse?
Hai detto una cosa giusta. Non so fino a che punto la colpa sia del cantautore o sia piuttosto del pubblico, non saprei darti una risposta. Forse è colpa di entrambi, forse non c’è più un punto d’incontro. Non so se sia il pubblico ad essere cresciuto talmente tanto o se sia, invece, regredito. Sai che cos’è che trovo particolarmente difficile, oggi? Parlare a tutti. I cantautori di un tempo ci riuscivano. Oggi ci sono cantautori di vario tipo, da quelli di massa a quelli d’élite, e, spesso, arrivare al successo è quasi una colpa. Per me invece è un merito, specie considerando come certi contenuti non siano di facile comprensione.
Inveisci contro molti aspetti della società, a partire dai dogmi e dalle ipocrisie dell’etichetta. Penso a brani come “L’atto situazionista”, “Quando sono morto” o “Al mio funerale”. Ma cos’è che ti fa imbestialire più di tutto?
Come hai detto tu, le mie canzoni sono tutte legate, da un certo punto di vista, sia “La parte peggiore”, sia, volendo, anche “L’atto situazionista”, che è, ad esempio, il mio omaggio personale a Guy Debord, filosofo francese. L’atto situazionista in se, per lui, doveva essere qualcosa di eclatante, che lasciasse il segno. Io invece penso a qualcosa che non lo sia, ma, al contrario, che passi inosservato.
In una realtà odierna in cui tutti vogliono essere qualcosa, o qualcuno, il vero atto rivoluzionario è non essere nulla…
Esatto. O fare qualcosa che non crei scalpore. Oggi tutti si aspettano qualcosa. La gente ha aspettative continue, una più stupida dell’altra. Si compra un cellulare solo per aspettare che esca il prossimo modello. Si aspetta sempre il passo successivo di qualcosa. Io credo invece che sia il silenzio che sta nel mezzo, tutto quello che passa inosservato, ad essere la vera rivoluzione, il vero atto situazionista. La cosa che mi fa imbestialire di più…? Paradossalmente, l’ipocrisia. Con i mezzi di comunicazione che abbiamo a disposizione, dovremmo aprirci di più al dialogo, alla comunicazione, invece si sente la più profonda ipocrisia in tante cose. Più mezzi si hanno per essere veri, più si crea un personaggio.
A proposito di personaggi… hai avuto altri pseudonimi o maschere, in passato?
No, ma qualora dovessi avere l’idea di creare un progetto che ha voglia di dire cose diverse da Mapuche, utilizzerei un altro nome, un’altra identità. Hai detto bene: Mapuche è più un personaggio che un cantautore. Deve dire le cose a modo suo, comunicare col suo linguaggio.
Il problema degli alter ego è che, a volte, prendono il sopravvento…
Chi tiene le redini: Enrico o Mapuche? Uno dei due è forse il lato oscuro dell’altro?
Bella domanda! Eh… se penso, col senno di poi, a quello che ho scritto, probabilmente è Enrico ad essere l’alter ego di Mapuche. Mapuche, paradossalmente vive dentro le mura domestiche, Enrico invece è quello che ha una vita sociale, che esce e si scontra… Mapuche è quello che realizza tutto quello che Enrico vive e lo fa suo, dentro ad una propria dimensione. Lo si potrebbe definire, da questo punto di vista, più estremo. Uno con una sua etica, dei suoi principi, mentre Enrico… lui è un essere umano a tutti gli effetti, difetti compresi. Non era così in origine. Mapuche doveva essere l’alter ego di Enrico… ma alla fine, ha preso il sopravvento. E’ lui a comandare ormai.
Dunque è entrato anche nella tua vita personale, oltre che nella tua arte…
In parte, sì.
Autocritica come arma per migliorarsi o rimuginare autodistruttivo?
Sia l’uno sia l’altro. Un coltello a doppio taglio. Può essere utilissima, una sorta di arma introspettiva, così come può farti del male.
Hai detto che Rino Gaetano non fa parte dei tuoi modelli. Tuttavia la tua timbrica e la tua impostazione vocale lo ricordano molto…
Non l’ho mai cercato come modello però. Lo apprezzo ma non fa parte delle persone a cui m’ispiro, né dei miei ascolti da ragazzo. E’ vero, oggettivamente, riconosco anch’io di somigliargli, ma è una cosa spontanea, non ricercata volutamente.
Sembra che tu stia piuttosto stretto all’interno di roba come schemi, convenzioni, etichette sociali. E’ civiltà umana in toto a darti questa sensazione di soffocamento, o solo la nazione in cui sei nato e magari, da qualche altra parte nel mondo, ti sentiresti più a tuo agio e libero di esprimere te stesso?
E’ una domanda a cui non posso rispondere. Non ho mai vissuto da altre parti, ma penso sia un qualcosa d’intrinseco, o non direi determinate cose se non avessero radici veramente profonde. Penso sia qualcosa che non sia legato alla nazione… qualcosa di più forte.
Cos’è che ti ispira maggiormente nella composizione?
Mi piace captare il momento. Come in “Al mio funerale”. Quello che racconto nel brano, non corrisponde al funerale cui ho assistito realmente.
Io mi accorgo di determinate cose che sul momento identifico e che solo poi approfondisco, allargo anche. Nasce un pensiero e poi, piano piano, riesco a modularlo, ma tutto sta nell’attimo. La mia vita è il punto di partenza, ma non d’arrivo.
Cosa puoi dirci dei disegni stilizzati che illustrano i tuoi album?
Sono opera di Giovanni Tomaselli e Monica Saso. Sono molto affini al mio immaginario, vi sono molte cose riscontrabili. Giovanni ha realizzato anche i videoclip ufficiali di “Fogna” e “Subbuteo” (quest’ultimo uscirà a giorni).
Il primo giugno, sempre qui a Linguaglossa, si esibito Claudio Lolli, da te molto stimato e citato come tagliente e disilluso critico della società. Ti piacerebbe collaborarci?
Mi piacerebbe tantissimo! Ecco, lui, a differenza di Rino Gaetano, appartiene ai miei modelli. Ho avuto anche la possibilità di parlarci, è una persona profondissima, molto schiva… come ha sempre detto, si è ritrovato a fare musica quasi casualmente. Personalmente sarebbe un sogno realizzare una collaborazione con lui… non so se a lui interesserebbe però! (sorride)
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