Madrina della conferenza è stata la Dott. Ssa Tomarchio che, con il suo fare da “cinquantenne improbabile”, ha dato avvio all’evento, sottolineando come un modello dinamico di diverse generazioni di donne abbia avviato un processo di ricerca e di consapevolezza di sé che, tuttavia, non ha avuto la possibilità di tradursi in un effettivo status identitario femminile. Il riferimento è a tutte quelle donne che si sono fatte carico nel corso dei secoli della notevole responsabilità di rendere visibile un’esperienza fatta in cui le nuove generazioni potessero rispecchiarsi per maturare nuove consapevolezze, nuove dinamiche emotive. E’ importante, dal suo punto di vista, che la donna non rimanga stanziale nei panni domestici, ma proceda progressivamente con una maggiore dinamicità per “pensare altri-menti”, per proiettarsi e vivere uno spazio aperto e ricco di opportunità, non chiuso o limitato. Ripercorrendo alcune ricerche sulle sperimentazioni scolastiche in Sicilia, scopriamo una consolidata e massiccia realtà di movimenti femminili che operano a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento: si tratta di pagine di storia di notevole importanza, dimenticate o boicottate, di cui nessuno sa nulla, perdendo così fette di memoria del femminile.
Segue l’intervento della Dott.ssa Priulla, la quale riesce con parole emotivamente forti e pungenti a conquistare l’attenzione del pubblico. I numeri colpiscono: 600milioni di donne violentate ogni anno nel mondo, tra i 16 e i 70 anni 7 milioni di donne hanno subito violenza: di cui 4 milioni hanno subito violenza fisica, 5 milioni violenza sessuale (la somma non fa sette in quanto una buona percentuale hanno subìto entrambe le forme di violenza). Le vittime sono donne che vivono in zone emarginate così come in castelli incantati, gli aguzzini sono uomini di tutti i ceti e condizioni, dai malati con disagi, alterazioni mentali ai perfettamente abili, dai barboni ai professionisti, docenti, medici, notai, poliziotti. Il primo importante pregiudizio da sfatare è l’ormai consolidato luogo comune che la violenza riguarda gli altri: sbagliato! La violenza riguarda TUTTI. Ogni tre giorni in Italia una donna viene uccisa dal proprio partner.
La parola femminicidio nasce negli anni Novanta in Messico, anche se tuttora sono in molti coloro che si rifiutano di usarla. Il Femminicidio non è la semplice uccisione di una donna, non si può infatti accusare di femminicidio un uomo che ha causato un incidente stradale provocando la morte di una donna, vittima dell’accaduto. Il femminicidio è l’uccisione di una donna perché è donna, perché non si adegua agli standard impostagli dal proprio partner,dalla famiglia di origine, aella società, dalla tradizione culturale, da tutto ciò che la circonda.
La lingua, del resto, non contempla la differenza tra i sessi: se in un’aula universitaria sono presenti cento donne e un SOLO uomo, la grammatica italiana ci impone di usare il maschile per riferirci agli studenti: è ERRORE dire studentesse (nonostante l’evidente maggioranza di donne). Ecco l’importanza di partire dalla lingua: riformiamo la sintassi italiana perché è a partire dalla lingua che si rinnova il pensiero. Ad esempio, si parla di violenza sulle donne: non è violenza sulle donne! E’ violenza degli uomini contro le donne, specifica la Priulla.
Il movente che spinge l’uomo al femminicidio di solito è una conflittualità permanente o la separazione della coppia, se l’assassino è il partner, in generale possiamo leggerlo come il rifiuto da parte dell’uomo di accettare il NO della donna: il che è un gravissimo problema in quanto la vita è fatta di negazioni.
Molto spesso, ci sentiamo dire “sta attenta, non tornare tardi la sera, non prendere zone buie e isolate, potrebbero violentarti”. Se pensiamo che una strada buia è silenziosa possa essere il luogo adatto per la violenza probabilmente pensiamo bene, ma se crediamo che il luogo più sicuro per una donna possa essere la propria casa allora sbagliamo di grosso: il 70% di violenza contro le donne avviene nelle mura domestiche. Dovremmo allora cambiare la frase e dire “sta attenta a non stare in casa, potrebbero violentarti”.Va sottolineato però che la violenza domestica è l’ultimo anello della catena: si inizia con le minacce, le offese,le umiliazioni, la disistima, con altre forme di violenza: quella economica, poi sessuale e infine fisica.
La violenza si può fermare: non possiamo ridurre e leggere il femminicidio come semplice eccesso di malvagità da parte del sesso maschile: perché la malvagità è ugualmente distribuita tra i due sessi. Il vero problema è come si intende l’amore, come si intendono le relazioni, il problema è il modello educativo di una società, di una famiglia, di una religione che ha avuto la presunzione di insegnare a noi donne come comportarci: “stai buona, stai zitta!”.La società insegna alle donne come fare per non essere violentate: non mettere magliette troppo attillate, non mettere gonne troppo corte… ma non insegna agli uomini come non violentare una donna. Nessun genitore si sognerebbe di dire al proprio figlio maschio quando esce “ricordati di non violentare una donna”. Occorre prevenire il silenzio: l’uomo che picchia è un uomo che non ha parole per esprimersi, così usa le mani; la donna che tiene la violenza dentro di sé e non denuncia è una donna che non sa esprimere le proprie emozioni e non sa affidarsi a una società, non crede che le istituzioni possano sostenerla e appoggiarla in questo martirio. “Andatevene ragazze la prima volta che il vostro uomo vi dice cosa dovete fare, che vi dice che siete delle stupide, che vi dà un ceffone. Nessuno ha il diritto di toccarmi se io non voglio. Non vuol dire NO! E la negazione non merita come risposta un atto di violenza, ma un sentimento di accettazione”.
Il problema più grave è poi la mancanza o l’insufficente grado di autostima: la prima violenza parte proprio con una lesione all’autostima, con il “guardarsi con gli occhi dell’altro, con i suoi occhi”. Le donne hanno gravi problemi di autostima perché da duemila anni sono state abituate a stare zitte, a far silenzio,a sopportare tutto, a non rispondere, a non far carriera, a fare le “bambole imbambolate”.
Viviamo in un mondo di relazioni umane mercificate: l’immagine che riceviamo e che i nostri figli continuano a ricevere è quella di una donna da possedere, da toccare, da palpare, da trapanare (come direbbe Sgarbi). Cominciamo allora boicottando tutte quelle pubblicità, tutta quella brutta stampa che titola i suoi articoli “Caldo criminale”, attribuendo al caldo l’uccisione di undici donne nell’arco di pochi giorni di tempo da parte degli uomini, boicottiamo quella stampa che giustifica il femminicidio con le classiche e ormai scontate giustificazioni: raptus di follia, gelosia. “La violenza si può e si deve fermare!”
Foto di Maria Chiara Aruta, prima classificata al concorso fotografico “Amori rubati, scatti ed emozioni”.
A seguire l’intervento del Dr. Cannavò che analizza il ruolo e l’importanza del terapeuta nel momento in cui chiede aiuto e sostegno terapeutico una donna che ha subìto violenza. La violenza, a causa di una sorta di binomio vittima-carnefice, diventa un tabù custodito nel tempo, a volte passano anni, fin quandoil corpo comincia a parlare. Allora ecco che entrano in terapia donne con crisi di ansia, attacchi di panico, disturbi dell’alimentazione. La donna contiene la violenza, è in grado di accettare come un pugile i colpi del carnefice, l’aggressività dell’uomo. Nel momento in cui tra il terapeuta e la paziente comincia a instaurarsi un rapporto di fiducia ecco che viene svelato il segreto, un segreto drammatico quanto significativo che dà una svolta alla terapia. Si lavora dunque sulla possibilità di far costruire nella donna contatti sani, relazioni equilibrate: si lavora in quella crepa alienante che ha distrutto una parte di sé per risanarla, per far riacquisire fiducia nella donna, per aiutarla a sostenere un incontro, un contatto nuovo e diverso con l’altro.Una violenza provoca un adattamento, causa delle modifiche relazionali che cambiano la storia di quella persona.
Particolarmente interessante il punto in cui si sofferma sull’altra faccia della medaglia: il Dr. Cannavò lavora anche in carcere ed è qui che spesso incontra i carnefici, gli aguzzini, gli artefici della violenza: dunque si svelano le debolezze, le fragilità, le crepe, altrettanto problematiche, di uomini che non sanno comunicare, che a causa di difese narcisistiche innate e, in parte costruite e consolidate da stereotipi millenari, portano l’uomo all’incomunicabilità e quindi alla violenza.
Infine, l’ultima dei quattro relatori (o volendo seguire il discorso della Dott.ssa Priulla, relatrici, visto che la maggioranza è di sesso femminile?) è Sara Crescimone che vuole parlare agli uomini, partendo da quella ANDROGINIA che va necessariamente recuperata: nell’uomo c’è una parte di donna che viene nascosta, e in ogni donna c’è una parte di mascolinità non accettata. Irrompe dunque domandando agli uomini se hanno mai pianto o quante volte, se mai avessero provato, l’hanno fatto. “Gli uomini tengono sulle proprie spalle un carico mostruoso, il che provoca un’incapacità di raccontarsi, di tradurre in parole la propria emotività, di dire e sperimentare ciò che provano, portando dunque, ad ultima spiaggia, alla violenza, alla ferocia, all’aggressività verso ciò che loro reputano più fragile, più debole”. La violenza è una miccia innescata che prima o poi si accenda: aiutateci e aiutiamoci a fermarla, opponetevi alla follia del possesso, alla logica del branco: siate fieri e orgogliosi di essere “diversamente abili”, di farvi portatori di rispetto e di vero amore nei confronti delle donne.
Dopo gli altri interventi, brevi per quanto suggestivi, è seguita la premiazione delle tre foto vincitrici del concorso fotografico: “Amori rubati, scatti ed emozioni”. La prima classificata è Maria Chiara Aruta, la seconda classificata è Eleonora Gugliotta, il terzo classificato è Sidney Cirnigliaro. Dopo la visione del video con tutte le foto partecipanti al concorso e la premiazione dei tre vincitori, sono stati distribuiti a tutti i partecipanti al concorso fotografico gli attestati di merito.
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