Sono state pubblicate pochi giorni fa e, come ogni anno, hanno suscitato parecchie polemiche. Le classifiche de Il Sole 24 Ore sulle migliori università italiane hanno collocato per l’ennesima volta gli atenei del Sud tra le ultime posizioni.
Eppure già da tempo il mondo accademico guarda con sospetto a determinate pubblicazioni: quanto sono attendibili queste classifiche? Ci siamo confrontati col prof. Francesco Coniglione, ordinario di Storia della Filosofia all’Università di Catania.
Come ci spiega il docente, le classifiche stanno difatti diventando un vero e proprio tormentone, ma “dovrebbero essere valutate con estrema cura. Ne esistono di parecchie e non tutte danno lo stesso responso per le università valutate. Per cui prima di giudicare su una singola classifica, bisognerebbe andare a vedere come essa è stata fatta. Nel caso specifico de Il Sole 24 Ore, in attesa che vengano forniti i dati disaggregati per i vari parametri, è facile constatare come alcuni di essi (internazionalizzazione, capacità di attrarre studenti da altre regioni, successo occupazionale, capacità di ottenere finanziamenti esterni) siano peculiarmente collegati alla collocazione territoriale e al contesto socioeconomico”.
Gli atenei siciliani sotto questo punto di vista risultano chiaramente svantaggiati: “La scarsa performance degli atenei meridionali rientra a pieno titolo nel più generale problema dell’arretramento economico e sociale complessivo del meridione. Ma da tempo, da più di un decennio, questo è un punto tragicamente e colpevolmente assente nell’agenda di tutti i governi”.
L’Università di Catania, nella classifica generale de Il Sole 24 Ore, ha guadagnato due posizioni rispetto allo scorso anno, ma resta comunque in fondo. Il prof. Coniglione, parlando di “un’idea approssimativa e sempre discutibile”, ci spiega che: “Nelle varie classifiche internazionali esistenti (sino al 2014), considerando gli undici ranking più importanti, vediamo che Catania si piazza in ‘posizione utile‘ (cioè tra le prime 500 o addirittura 400 migliori università al mondo) in ben 4 ranking. E le università italiane ad avere piazzamenti in almeno due ranking non sono mica molte: solo 31. Così accade che università, nella classifica del Sole 24Ore ai primi posti, stanno ben dietro Catania. Il caso più clamoroso è Verona, posta al primo posto dal Sole 24Ore ed invece piazzata in posizione utile in soli tre ranking internazionali rispetto ai 4 di Catania”.
Le classifiche possono essere aleatorie. Ad esempio, come ci ha spiegato il professore di Storia della Filosofia, per la classificazione basata sulla ricerca scientifica è stata cambiata la scala di misurazione, che ha permesso agli atenei di salire nuovamente la classifica con “un artificio numerico” . Tuttavia, è chiaro che nelle università del Sud ci siano anche dei problemi reali, determinati dal “definanziamento del sistema universitario italiano”, che come rivela il prof. Coniglione ha portato a stanziare nel 2009 mediamente il 19,3% di fondi che, in realtà, l’università di Harvad da sola riceve.
“Eppure, se parliamo in termini di produttività – precisa il docente – cioè di rendimento in qualità della didattica e in particolare modo della ricerca scientifica, ci possiamo render conto come le università italiane siano le più produttive al mondo, essendo in grado di posizionarsi in ottime posizioni pur ricevendo molto meno in budget di quanto non ricevano affermate università straniere, con le quali le si vorrebbe confrontare”.
Le classifiche possono rappresentare uno stimolo per migliorare, ma non sono di certo la soluzione per risolvere il gap degli atenei italiani, tra cui anche quello catanese che, secondo il prof. Coniglione, vive un momento di crisi per via “dell’eccessiva centralizzazione e del crescente autoritarismo dell’organizzazione, già implicito nella legge Gelmini, ma che a Catania è stato ancor più accentuato da uno Statuto che ha sacrificato la partecipazione all’efficienza (tutta da dimostrare); quando il piacere della didattica viene sempre più soffocato da innumerevoli adempimenti burocratici, da commissioni per la valutazione, il controllo, la programmazione, il riesame, con moltiplicazione di ruoli, carte, riunioni, controlli e vincoli, allora tutto ciò sottrae spazio e tempo all’autoaggiornamento, alla preparazione delle lezioni, al dialogo con gli studenti; e questi vengono sostituiti dai loro simulacri cartacei, da numeri, indicatori, parametri”.
“Ebbene l’università di Catania ha avuto il torto, in questi ambiti, di essere ‘più realista del re‘ –
conclude – ed invece di cercare di alleviare i pesi che normativamente sono stati imposti alle università, ci ha aggiunto del suo, ulteriormente aggravando la condizione dei docenti e di riflesso degli studenti. E invece bisognerebbe andare in direzione opposta: semplificare quanto più, rendere più snella l’amministrazione, la gestione dei fondi, l’organizzazione della didattica. È inconcepibile che per far controllare un mio scritto in inglese da un madrelingua, spendendo miei fondi di ricerca, io debba attivare una procedura che prevede persino il parere del Consiglio di Stato, in un iter che richiede circa sei mesi, visti le approvazioni e i passaggi amministrative che si devono fare. La rinascita dell’università può venire solo dal risorgere in docenti e studenti dell’entusiasmo dell’insegnare e dello studiare, come avventura della conoscenza, non come un dibattersi disperato tra i meandri della burocrazia e col peso di quintali di carte e scartoffie, che poi non legge nessuno. Solo così si metteranno al centro la ricerca e la didattica: ridando un ruolo eminente al docente che fa ricerca e la trasmette ai suoi discepoli e agli studenti che hanno il piacere di conoscere e di entrare in un rapporto umano con i propri docenti. Ma per far ciò è necessario liberare i docenti degli eccessivi pesi burocratici e gli studenti da una asfissiante programmazione curriculare che li impegna in una molteplicità di discipline e attività varie che sottraggono loro tempo per la riflessione e i contatti con i docenti”.