Quante volte avete attraversato piazza Università senza accorgervi di nulla o ignorandole? Probabilmente avete lasciato inosservate le leggende che abitano il bellissimo salotto barocco del centro storico di Catania. Ci riferiamo ai famosi quattro candelabri in bronzo che raccontano le leggende catanesi della giovine Gammazita, dei fratelli pii Anapia e Anfinomo, del paladino Uzeta e del sub Cola Pesce.
Realizzati nel 1957 dal maestro Mimì Maria Lazzaro, al quale fu poi dedicato il celebre Istituto d’Arte di via Crociferi (oggi trasferitosi altrove), e dallo scultore Domenico Tudisco, i basamenti dei quattro candelabri bronzei hanno da sempre fatto da cornice ai maestosi palazzi del Comune di Catania, dell’Università degli Studi di Catania e del Palazzo San Giuliano, posti ai loro lati.
Ma in quanti davvero conoscono la loro storia?
Gammazita era una giovane ragazza, bella, virtuosa e promessa sposa. Di lei s’innamorò follemente un soldato francese, conosciuto col nome di Droetto, che perdendo la testa per lei non le tolse mai gli occhi e i pensieri di dosso. Tanto che la giovane catanese non usciva mai da sola, ma sempre accompagnata per paura di trovarsi faccia a faccia con il suo perseguitore. Un giorno, forse per imprudenza o per necessità, decise di andare al pozzo nei pressi del Castello Ursino di Catania e fu inseguita dal soldato d’oltralpe. Pur di non cedere alle vibranti pretese, Gammazita decise di gettarsi nel pozzo e dare la sua vita piuttosto che disonorare il proprio impegno. Per l’occasione partì una vera e propria caccia all’uomo nei confronti di Droetto. Infatti, gli abitanti catanesi fecero pronunciare la parola “ciciri“ (ceci in dialetto) a diversi passanti e grazie a questo shibbolet, parola molto difficile da pronunciare per chi parla un’altra lingua o dialetto, cercarono di individuare il soldato.
I fratelli pii Anapia e Anfinomo, contadini delle terre etnee, vennero sorpresi da una forte eruzione mentre si apprestavano ad arare i campi. L’unica soluzione era quella di fuggire velocemente ma pur di salvare i genitori se li misero sulle spalle. Questa decisione ne rallentò drasticamente la fuga e vennero ben presto raggiunti dalla lava. Leggenda vuole che quest’ultima, una volta arrivata nei pressi dei fratelli, si divise miracolosamente in due per poi ricongiungersi, lasciando i fratelli e i genitori incolumi. L’episodio era ben noto nell’antichità come esempio di pietas. Era considerato un vanto di Catania e furono coniate monete, innalzati tempi e scolpite statue. La loro tomba fu posta nel “Campo dei fratelli pii” presso il tempio di Cerere. Tale vicenda ispirò probabilmente anche Virgilio attraverso la figura di Enea, che salvò il padre Anchise dalle fiamme di Troia.
Il paladino Uzeta, giovanotto di umili origini e figlio di gente povera, conquistò il cuore e la benevolenza del re Federico II di Svevia grazie al suo
Quella di Cola Pesce probabilmente è la leggenda più famosa delle terre siciliane, esportata oltre lo stretto e presente in tantissime varianti. Abile sub, tale da poter abitare anche settimane e mesi sott’acqua proprio come un pesce, era un giovane amante del mare e degli abissi. Re Federico II di Svevia, venuto a conoscenza di questa incredibile qualità del giovane, volle metterlo alla prova gettando prima una coppa e poi proprio la sua corona negli abissi, chiedendo che gli venisse restituita dopo averla recuperata. Cola Pesce senza timore alcuno si fiondò negli abissi riportando a galla i due oggetti lanciati dal re. Ma, nel restituirli, raccontò dell’incredibile meraviglia dei fondali siciliani. Così incuriosito dalle storie raccontate dal giovane, il re lanciò il suo anello e Cola Pesce prontamente, ancora una volta, lo recuperò. Ma stavolta non portò al re belle notizie, in quanto nella sua immersione scoprì che la Sicilia era poggiata su tre colonne: una a Capo Passero, una a Capo
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