
Femminicidi in Italia: 70 donne uccise nel 2025. Un’emergenza che si ripete ogni tre ogni, una donna viene uccisa in Italia per mano di un uomo che diceva di amarla. Nel 2025, secondo i dati dell’Osservatorio Non una di Meno, sono già 70 i femminicidi registrati, mentre 82 sono i casi complessivi monitorati dalla magistratura. Numeri impressionanti, dietro cui si nascondono nomi, storie, vite spezzate. Storie che si assomigliano terribilmente: minacce, persecuzioni, denunce inascoltate, paura quotidiana. Fino all’atto finale, quello più violento, irreparabile.
Il femminicidio non è un’emergenza improvvisa. È una realtà strutturale, il culmine di una catena di abusi, spesso iniziati mesi o anni prima, e troppo spesso sottovalutati. La cronaca lo chiama “raptus”. Ma non c’è niente di improvviso in un uomo che controlla, umilia, picchia, perseguita. È un copione noto, eppure ancora drammaticamente attuale.
Dietro ogni femminicidio si cela una mentalità che considera la donna una proprietà. La gelosia non è una prova d’amore, ma un meccanismo di controllo. Il “se non sei mia, non sarai di nessuno” non è un pensiero isolato, ma una convinzione radicata in una cultura che educa al possesso, non al rispetto. Che romanticizza la violenza, che assolve gli uomini violenti e mette sotto processo le vittime.
La prevenzione non può limitarsi a leggi e arresti: serve un cambiamento profondo e culturale. Bisogna iniziare dalle scuole, dall’educazione sentimentale e di genere. Bisogna formare le forze dell’ordine, gli operatori sociali, i magistrati. E soprattutto, ascoltare le donne quando denunciano.
Nel 2025, nonostante campagne di sensibilizzazione e nuovi strumenti giuridici, la protezione reale delle donne resta fragile. Le misure cautelari sono spesso inadeguate. Le denunce cadono nel vuoto. E la rete di supporto psicologico, legale e sociale è discontinua e territorialmente disomogenea. Le donne vengono lasciate sole proprio quando chiedono aiuto.
Il femminicidio è l’estrema conseguenza di una società ancora indifferente al dolore femminile, che spesso colpevolizza le vittime (“Perché non l’ha lasciato prima?”, “Perché non ha denunciato?”) invece di porsi le vere domande: Perché lui ha ucciso? Perché nessuno l’ha fermato?
Pamela Genini, 29 anni, è una delle 70 donne uccise nel 2025. Ex modella e imprenditrice bergamasca, è stata assassinata a Milano con 24 coltellate dall’ex compagno Gianluca Soncin, 52 anni. Per mesi lo aveva temuto, evitato, denunciato. Viveva nel terrore: cambiava tragitto ogni giorno, dormiva dai genitori o dall’ex pur di non rimanere sola. Lui l’aveva già aggredita all’Isola d’Elba, aveva minacciato di ucciderla, persino di gettarla da un balcone. Eppure, era libero.
La sera dell’omicidio, Soncin è entrato in casa con una copia delle chiavi. Pamela era al telefono con un amico. Ha urlato “Aiuto”, ha chiesto di chiamare la polizia, ha tentato di indicare il piano agli agenti. Ma quando sono arrivati, lei era già a terra. Respirava a fatica. Poco dopo è morta. Aveva chiesto aiuto tante volte, ma nessuno è riuscito a salvarla.
Ogni volta che una donna viene uccisa, l’Italia si indigna per qualche giorno. Fiori, fiaccolate, post sui social. Poi, tutto torna come prima. Ma non può esserci normalità dove c’è violenza. Non possiamo accettare che la paura sia parte della vita quotidiana di tante donne. Non possiamo tollerare che ogni tentativo di lasciare un uomo violento si trasformi in una condanna a morte.
La storia di Pamela Genini è dolorosamente simile a tante altre. Ma non deve essere dimenticata. Deve essere un punto di svolta. Serve uno sforzo collettivo, culturale, politico. Servono risorse, formazione, ascolto. E serve il coraggio di guardare il problema per quello che è: non un destino, ma una responsabilità collettiva.
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