
L’8 e il 9 giugno gli italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi su cinque quesiti referendari abrogativi che toccano due temi fondamentali per il Paese: il lavoro e la cittadinanza. Mancano pochi giorni al voto, eppure, l’attenzione dell’opinione pubblica resta ancora poco accesa, complice una scarsa informazione da parte dei canali ufficiali. Per approfondire il significato di questo importante appuntamento elettorale, abbiamo raccolto la testimonianza di un ex coordinatore del nostro giornale, Domenico La Magna, oggi giornalista a Bruxelles e membro attivo del Comitato Referendario nella capitale belga. La sua voce ci guida dentro le ragioni, le difficoltà e le speranze che animano questa consultazione.
Per comprendere davvero cos’è un referendum e la sua forza, bisogna compiere un viaggio nel tempo, tornando indietro a un giorno tanto lontano quanto attuale: il 2 giugno 1946. È una delle date più simboliche della nostra storia democratica, quella in cui, con il primo referendum istituzionale, il popolo italiano, per la prima volta a suffragio universale, sceglie la Repubblica al posto della Monarchia, sceglie la propria sovranità.
Da allora, il referendum è stato uno tra gli strumenti più alti di partecipazione popolare: una forma diretta di esercizio della sovranità da parte dei cittadini, che esercitano con il più sacro degli strumenti democratici, il voto. Quello a cui gli italiani sono chiamati nei prossimi giorni, è un referendum abrogativo che, previsto dall’articolo 75 della Costituzione, consente di cancellare, in tutto o in parte, una legge o un atto avente forza di legge. Si tratta di un meccanismo solo in apparenza semplice: basta votare un “sì” o un “no”, ma quel gesto racchiude tutta la forza del giudizio critico del popolo sui provvedimenti adottati dal Parlamento. È un meccanismo che restituisce alla collettività un potere correttivo e direttivo.
In un contesto come quello attuale, in cui è profondo il divario tra istituzioni e società civile, il referendum rappresenta – proprio come nel 1946 – l’occasione per riaffermare una cittadinanza attiva e consapevole. Affinché però questo strumento possa funzionare, è fondamentale superare la soglia del quorum prevista: la partecipazione al voto del 50% più uno degli aventi diritto. Un traguardo che oggi sembra sempre più difficile da raggiungere, non solo per la carenza di informazione, ma soprattutto per lo scoraggiamento del popolo italiano che, a differenza dei propri avi, sta perdendo la fiducia nella propria sovranità.
La consultazione referendaria nei suoi primi quattro quesiti rimette nelle legittime mani del popolo, quel che i padri costituenti posero a fondamento della Repubblica: il lavoro.
Sul tavolo di gioco la posta è alta, diritti, tutele e qualità della vita lavorativa di milioni persone: il popolo che sceglie per sé potrà – se lo vorrà – ridisegnare il mercato del lavoro, riportando verso l’equilibrio i rapporti tra lavoratori e datori di lavoro.
L’ultimo dei cinque quesiti referendari riguarda la legge sulla cittadinanza italiana, con un obiettivo preciso: ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale richiesto per poterne fare domanda. Si tratta di una modifica che interessa circa 2 milioni e mezzo di persone nate e cresciute in Italia, che qui hanno condotto i propri studi, risiedono e lavorano, che da tempo attendono un’accelerazione verso il pieno riconoscimento dei propri diritti civili. Un aspetto da sottolineare riguarda il fatto che il referendum non tocca gli altri requisiti fondamentali per ottenerla, come la conoscenza della lingua italiana, l’assenza di precedenti penali o il rispetto degli obblighi fiscali, ma agisce su un piano disfunzionale dell’iter, che allineerebbe l’Italia ad altri Paesi europei più avanzati sul tema dell’integrazione.
La questione della cittadinanza, con tutte le sue implicazioni sociali e personali, è forse la più centrale nel dibattito, soprattutto per un popolo come il nostro, fatto di migratori e migranti, ma anche di chi ha sempre saputo accogliere. Per capire davvero cosa significhi oggi sognare un futuro pieno di diritti e opportunità, abbiamo scelto di ascoltare chi vive questo desiderio ogni giorno, rendendolo concreto con l’impegno.
Nel dialogo con Domenico La Magna, giornalista e membro attivo del Comitato Referendario di Bruxelles, il racconto personale si intreccia con un’ampia riflessione sulla giustizia sociale.
“Il Comitato Referendario è composto da persone, associazioni e partiti politici che sostengono il referendum in Italia e anche in Belgio. Per esempio l’Arci Bruxelles, tra le associazioni, Mediterranea, tra i partiti ci sono Sinistra Italiana, il PD di Bruxelles, Volt – il partito paneuropeo che ha qui una sede – ci sono diversi attivisti italiani, persone che fanno parte dei comitati che hanno promosso il referendum in Italia, come le associazioni Italiani senza cittadinanza e l’associazione Dalla parte giusta della storia”, ci spiega raccontando come non sono i confini nazionali a fermare la voglia di contribuire a migliorare il proprio Paese.
Il Comitato ha lavorato con determinazione sul territorio: “abbiamo fatto molti eventi, sia esplicativi per presentare i quesiti a livello tecnico, dire cosa rappresentavano e quali erano le premesse, sia eventi con la presenza anche di europarlamentari, grazie soprattutto alla CGIL di Bruxelles che si è spesa molto per organizzare l’evento con tre eurodeputati, Zingaretti, Ilaria Salis e Pasquale Tridico, oltre a un rappresentante di CGIL nazionale” ci racconta, ma la sfida principale resta l’informazione. “Il problema è che manca, da parte del governo, della televisione e delle reti pubbliche, qualsiasi volontà di informare la cittadinanza sul contenuto dei quesiti, se le persone sanno di cosa parlano i quesiti sono molto più convinte di andare a votare. Però se nessuno le informa, se nessuno gli spiega cosa rappresentano e perché è importante, allora le persone o non votano o credono che non sia importante.”
“L’influenza che la mia esperienza personale ha sull’essere italiano all’estero, sulla comprensione della tematica del referendum di cittadinanza, è la comprensione del mio privilegio. Io non ho problemi a viaggiare in Europa in quanto cittadino italiano, abbiamo una cittadinanza che ci permette di spostarci senza ostacoli e un passaporto tra i più potenti al mondo; quindi, mi rendo conto di quanto sono stato fortunato e di quanto tante persone che sono italiane quanto me, ma che per una sciocchezza burocratica non hanno la cittadinanza, non abbiano avuto diritto alle mie stesse possibilità, creando una discriminazione che poi si ripercuote per tutta la vita.”
Possedere la cittadinanza è un qualcosa che si dà per scontato nel quotidiano, quasi come fosse un diritto naturale per chi lo ha dalla nascita, mentre per molti è un traguardo al limite dell’irraggiungibile, ostacolato da vincoli burocratici invisibili a chi non li ha mai dovuti affrontare. Ed è proprio qui che crolla la retorica del tema “divisivo”. “Il problema è che le persone non conoscono i requisiti”, fa riflettere il giornalista, “ci vogliono non solo 10 anni per ottenere la cittadinanza, ma la pubblica amministrazione può prenderne altri 3 per esaminare la domanda, e in più questi 10 anni devono essere di residenza legale e ininterrotta.” Le sue parole aprono uno squarcio su una realtà poco raccontata: “I bambini, per esempio, che non sono nati in Italia, fanno le scuole in Italia, non possono partecipare a delle gite, perdono una serie di occasioni; non possono fare l’Erasmus perché devono rimanere in Italia per 10 anni con residenza legale e ininterrotta, oppure non hanno un passaporto”.
Dal racconto di Domenico, emerge chiaramente come non si tratti di un tema divisivo ma solo bisognoso della giusta informazione, anzi è un tema che seppur ritenuto distante dagli altri quesiti si intreccia con questi. “Tra gli altri, ci sono anche requisiti come un reddito minimo, che è giusto ma è molto elevato, e soprattutto se non hai cittadinanza è più facile che i datori di lavoro non facciano un contratto regolare, quindi, sono cause che si collegano a vicenda. Il fil rouge tra i quesiti sta nel fatto che si rivolgono a categorie che sono deboli, come le categorie dei lavoratori precari, dei giovani che hanno spesso contratti meno stabili rispetto alle persone di una generazione più grande, e quindi sono tutti e cinque quesiti che si rivolgono a una parte non debole della popolazione, ma indebolita da leggi che o non le riconoscono – non riconoscono le persone nate e cresciute in Italia – oppure indeboliscono il potere contrattuale dei giovani, costringendo molte persone a una situazione di precarietà e di debolezza.”
Partecipare al referendum significa esercitare un diritto fondamentale, conquistato con fatica e custodito nella nostra Costituzione. È un atto di responsabilità collettiva, un segno che il popolo è consapevole della propria voce. Che si scelga di sostenere o meno i quesiti, ciò che tiene accesa la democrazia è proprio la partecipazione. Perché il diritto di voto è sacro, e come tale va onorato: con consapevolezza, presenza e libertà di scelta.
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