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Coronavirus, è in arrivo il test sulla saliva: risultato in pochi minuti

Sarà presto disponibile in commercio il test della saliva che rileva la positività al Coronavirus. Si discute, invece, sul possibile utilizzo del plasma dei guariti, suoi soggetti in condizioni gravi.

È pronto il Test rapido salivare (Trs) capace di rilevare il contagio da Covid-19 anche nei soggetti asintomatici. Il test è stato progettato dall’ Università dell’Insubria e dell’ Azienda Sanitaria Territoriale dei Sette Laghi e la sua praticità lo renderà presto disponibile in commercio in un vero e proprio kit, in quanto da’ risultati in pochi minuti.

Infatti, in quanto a velocità e praticità, è simile ad un test di gravidanza. Il kit del Trs comprende una striscia di carta assorbente, in cui viene raccolta la saliva, la quale viene trattata con un apposito reagente: se compare una banda, il soggetto è negativo, se due bande, è positivo. La particolare efficacia di questo test è data dalla sua capacità di rilevare anche i soggetti infetti, ma asintomatici, funzione di particolare rilievo in questa fase 2 di convivenza con il virus.

L’equipe che ha realizzato il Trs è stata diretta dal rettore dell’università Angelo Tagliabue, professore di Odontostomatologia, e Paolo Grossi, infettivologo referente regionale e ministeriale per l’emergenza Covid-19, su input del ricercatore di Odontoiatria Lorenzo Azzi e del professor Mauro Fasano, esperto in Biochimica. La realizzazione dei reagenti e dei kit, invece, è avvenuta nei laboratori dell’Insubria a Busto Arsizio (Varese) ed è stata coordinata dalla ricercatrice Tiziana Alberio.

Si sta ancora valutando, invece, l’impiego del plasma dei soggetti guariti dal Coronavirus, come terapia provvisoria da impiegare. Al momento, la scienza non da’ certezze assolute sull’efficacia e la sicurezza del suo utilizzo, che è ancora oggetto di studio dei protocolli sperimentali in corso. Il Ministero della Salute, nel portale web “Donailsangue”, ha dichiarato che “il plasma da convalescenti è già stato utilizzato in passato per trattare diverse malattie  e, in tempi più recenti, è stato usato, con risultati incoraggianti, durante le pandemie di SARS ed Ebola”.

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Entrando più nel dettaglio, il sito specifica che la terapia con plasma da convalescenti, prevede il prelievo del plasma da persone guarite dal Covid-19 e la sua successiva somministrazione (dopo una serie di test di laboratorio, anche per quantizzare i livelli di anticorpi “neutralizzanti”, e procedure volte a garantirne il più elevato livello di sicurezza per il ricevente) a pazienti affetti da Covid-19, come mezzo per trasferire questi anticorpi anti-SARS-Cov-2, sviluppati dai pazienti guariti, a quelli con infezione in atto.

“Gli anticorpi (immunoglobuline) sono proteine coinvolte nella risposta immunitaria che vengono prodotte dai linfociti B in risposta ad una infezione e ‘aiutano’ il paziente a combattere l’agente patogeno andandosi a legare ad esso e ‘neutralizzandolo’. Tale meccanismo d’azione – conclude il Ministero – si pensa possa essere efficace nei confronti del SARS-COV-2, favorendo il miglioramento delle condizioni cliniche e la guarigione dei pazienti”.

La prudenza da impiegare nell’utilizzo del plasma per elaborare risposte terapeutiche al virus, viene confermata dai massimi rappresentanti dell’ambiente scientifico. Il professor Pier Maria Fornasari, ex primario dell’ospedale Rizzoli di Bologna, ha confermato che occorre conoscere di più il ruolo del plasma, in modo da sapere quando utilizzarlo sui pazienti. Infatti, se in una prima fase della malattia, il plasma iperimmune, cioè con gli anticorpi del virus, “può essere utile a scopo preventivo”, secondo quanto affermato da Fornasari, più avanti, quando la situazione si aggrava, “potrebbe invece essere più indicato il plasma ‘normale'”.  

Dunque, secondo l’esperto, nella prima fase “viremica”dalla malattia,“andrebbe dato il plasma, in via preventiva, quando si vede un peggioramento, un’evoluzione verso la bronchite e poi la polmonite. Il plasma iperimmune, preventivamente, andrebbe riservato a quel 20% circa di pazienti ad evoluzione medio-grave. Ma più avanti, quando si scatena l’abnorme reazione infiammatoria, il virus è in una quantità ridotta e allora a quel punto “potrebbe non avere senso immettere anticorpi”. Tuttavia, per procedere in questo modo, è necessario un coordinamento nazionale ed europeo “come sta avvenendo sui farmaci”, ha sottolineato Fornasari. Infatti, senza una tale disposizione “rischiamo una dispersione di risorse”, conclude l’ex primario.

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