Il Policlinico "Vittorio-Emanuele" di Catania è la struttura di riferimento nella gestione della terapia dei pazienti COVID-19 per la Sicilia orientale. Il direttore del programma di Farmacologia Clinica e Farmacovigilanza spiega quali sono i farmaci utilizzati nel trattamento della malattia e l'attività svolta dall'azienda ospedaliera.
Da tempo ormai gli italiani sono abituati a seguire i bollettini giornalieri a livello nazionale e regionale, rattristandosi a ogni aumento dei casi e gioendo a ogni nuovo record di guariti. Spopolano i grafici sulla pandemia e c’è senz’altro chi saprebbe snocciolare senza un minimo tentennamento i numeri esatti del contagio negli ultimi giorni. Ben poco, invece, si sa degli strumenti che l’Italia mette in campo per contrastare il virus, a parte qualche farmaco dal nome impronunciabile e subito dimenticato che balza agli onori delle cronache.
A fare chiarezza sul tema è intervenuto ai microfoni di LiveUnict il professore Filippo Drago, docente di Farmacologia presso il dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologiche dell’Università di Catania e direttore della U.O. Programma Infradipartimentale di Farmacologia Clinica e Farmacovigilanza all’azienda ospedaliera universitaria “Policlinico – V. Emanuele”. Il Policlinico, infatti, è stato indicato dall’assessorato alla Salute siciliano come hub per la gestione della terapia per i pazienti COVID-19 nella Sicilia orientale (Catania, Messina, Siracusa, Ragusa ed Enna), in particolare per i farmaci off-label, vale a dire i farmaci non autorizzati per questa specifica indicazione (mancando, oggi, un farmaco sempre valido da poter utilizzare).
Nel suo ruolo di hub per la Sicilia, assieme all’ospedale “Villa-Sofia Cervello” di Palermo, il Policlinico si occupa di svolgere la funzione di collettore per le strutture ospedaliere, fornendo a quelle che ne fanno richiesta i farmaci appositi. “Questo servizio consiste – spiega il professore al riguardo – nel raccogliere le richieste per i singoli pazienti nominativi (quindi con iniziali nome, età, peso corporeo), poiché il farmaco viene somministrato in base al peso corporeo, e poi, dopo una discussione con il clinico che ne fa richiesta, per condividere in qualche modo la terapia, considerato che altri farmaci possono essere resi disponibili, è stata volta per volta reso disponibile sulla base della giacenza”. Tra i diversi farmaci, il Policlinico si occupa di distribuire il Tocilizumab, reso disponibile gratuitamente da Roche nell’ambito dello studio TOCIVID-19.
“Per i pazienti che vengono registrati nella piattaforma Roche invia il farmaco alla nostra farmacia e noi lo distribuiamo – continua il docente –. Chiaramente, manteniamo il conteggio dei pazienti ricoverati per i quali viene richiesto il trattamento. Tuttavia, molto spesso non è il Tocilizumab che viene richiesto ma altri farmaci che sembrano più opportuni. Per ognuno dei casi che vengono segnalati facciamo un briefing dei colleghi responsabili dell’Unità Operativa, che sia Malattie infettive, Rianimazione o Medicina d’urgenza, per stabilire il più adatto”.
Assieme a questo compito di smistamento, il Policlinico naturalmente si occupa anche di segnalare l’uso più corretto dei farmaci per la terapia. “Noi mandiamo linee guida sull’uso dei singoli farmaci – aggiunge il prof. Drago sul ruolo della struttura ospedaliera catanese –, senza naturalmente proporre nessun protocollo. Informiamo i colleghi dell’hub sugli effetti avversi dei farmaci, sulla necessità di evitare alcune interazioni, sull’aggiornamento sugli studi che vengono autorizzati da AIFA; tutto questo come servizio di informazione ai vari centri, con il compito principale di amministrare i farmaci che vengono richiesti”. Alcuni, specifica lo stesso docente, possono essere combinati con altri, ma nel farlo bisogna ricordare sempre i possibili effetti avversi che potrebbero nascere dalle interazioni.
Diversi sono gli strumenti in uso per contrastare il coronavirus, o perché l’AIFA ne ha autorizzato la sperimentazione o perché in uso compassionevole, vale a dire con la possibilità di utilizzare, a fini terapeutici, medicinali o terapie per i quali non è ancora stata completata la fase di sperimentazione clinica. Uno di questi è il Remdesivir, “un farmaco antivirale – spiega il professore – che si è dimostrato molto efficace nella terapia in questi casi, reso disponibile dall’azienda Gilead. Oppure il Siltuximab, un farmaco che noi proponiamo per i casi che sono stati trattati con due somministrazioni di Tocilizumab, secondo il protocollo approvato da AIFA, e che non abbiano risposto. In questi casi è difficile prevedere una terza infusione di Tocilizumab; allora noi proponiamo il Siltuximab, un farmaco che ha una azione simile ma più potente del Tocilizumab”. Entrambi, infatti, agiscono sulla Interleuchina-6. In questo caso, quando due trattamenti di Tocilizumab non sono stati efficaci e il paziente si aggrava nonostante l’uso del farmaco, si ricorre a un anticorpo specifico come il Siltuximab.
Un altro farmaco è il Sarilumab, partito in sperimentazione autorizzata dall’AIFA nel Nord Italia e a cui si è associato anche il Policlinico. “C’è poi la sperimentazione dell’enoxaparina – continua il docente –, proposta da noi assieme all’Unità Malattie infettive di Bologna, partita negli ultimi giorni, che ha un valore particolare perché l’enoxaparina è un farmaco di fascia A, che in teoria può essere prescritto anche dal dottore di medicina generale, mentre tutti gli altri citati finora sono farmaci da prescrizione specialistica, prescrivibili solo in regime ospedaliero”.
Inoltre, tra gli altri farmaci di fascia A ci sono la clorochina e l’idrossiclorochina, rispettivamente un farmaco antimalarico e un farmaco utilizzato per il trattamento del lupus eritematoso e per l’artrite reumatoide, entrambi dimostratisi comunque molto efficaci in un trattamento in prima istanza. “La caratteristica di questa patologia è che non si riesce ad oggi a trovare un farmaco che sia efficace in maniera univoca per tutti i pazienti. Purtroppo non abbiamo un protocollo da seguire e quindi, come è giusto aspettarsi nel caso in cui la malattia è conosciuta da pochi mesi e non ci sono farmaci registrati, ci si affida ai farmaci già esistenti, nella speranza che uno di questi possa essere sempre efficace e risolutivo. Ancora non lo abbiamo trovato, anche se alcuni sono particolarmente efficaci e altri un po’ meno.
I farmaci che utilizziamo oggi, tutti off-label, dimostrano efficacia in una sub-popolazione di soggetti, non in tutti – continuerà in seguito il prof. Drago -. Questo è probabilmente legato al fatto che vengono utilizzati in fasi diverse della malattia. Pensiamo che il trattamento debba avvenire il più precocemente possibile. La necessità di sperimentare e definire un profilo di trattamento è ancora un’emergenza”.
Posto che, come specifica il docente stesso, “non esiste un farmaco più efficace in assoluto in questa patologia“, dall’inizio della pandemia in tutto il mondo fioccano le sperimentazioni di farmaci efficaci nella terapia del COVID-19. L’AIFA ha già autorizzato la rimborsabilità di alcuni farmaci, come clorochina e idrossiclorochina, dando il placet, inoltre, per diverse sperimentazioni. “Quando uno sperimentatore o un gruppo di medici fa una proposta ad AIFA lo fa con un razionale che supporti la sperimentazione”, spiega il docente. Così è avvenuto, per esempio, per il Tocilizumab.
“Quando lo studio TOCIVID-19 è stato proposto da due carissimi colleghi di Napoli, due oncologi, lo è stato fatto su una base molto solida – spiega -, cioè il fatto che il Tocilizumab si usa nella sindrome da rilascio di citochine, una sindrome particolare che si verifica nel corso del trattamento per patologie onco-ematologiche, un trattamento Car-T. In questa sindrome da rilascio di citochina il Tocilizumab si dimostra particolarmente efficace. Una situazione molto simile al rilascio di citochine da Car-T si verifica nella polmonite da COVID-19″.
Altre volte, invece, il razionale è molto debole, come avvenuto per il Favipiravir, un farmaco che sembrerebbe essere stato utilizzato dal Giappone, e per il quale AIFA è stata fortemente criticata. Diverso il caso della sperimentazione dell’enoxaparina, che vede il docente coinvolto in prima persona come autore di uno studio condotto assieme al prof. Pierluigi Viale, direttore dell’unità operativa Malattie infettive dell’Ospedale Sant’Orsola-Malpighi di Bologna. “La sperimentazione dell’enoxaparina si basa su un razionale, secondo il mio punto di vista, abbastanza solido, perché, a parte i risultati avuti in molte sperimentazioni preliminari, l’enoxaparina è tra i farmaci indicati dall’OMS per questi pazienti e già rientra nel ‘protocollo'”. Si tratta, inoltre, di un farmaco ampiamente conosciuto dai medici e utilizzato per la prevenzione del tromboembolismo venoso.
A tal proposito, lo studio sull’enoxaparina approvato da AIFA, come spiega il docente, si basa su due gruppi di pazienti: cento sui quali verrà utilizzato il farmaco in dose medio-alta e duecento “di controllo” con una dose medio-bassa. “La nostra intenzione, ne parlavo proprio ieri con Viale, è quella di espandere lo studio con un disegno di randomizzazione, cioè uno studio che preveda uno schema che sia almeno singolo cieco, se non doppio cieco (ossia il medico non sa chi sta trattando e il paziente non sa cosa riceve) e in questo caso si utilizzerà uno schema di randomizzazione, per cui i centri, che saranno di certo molti di più dei 14 inclusi in questo studio iniziale. I centri saranno in grado di utilizzare in maniera molto più estensiva l’enoxoparina”.
Per il momento, tuttavia, lo studio non è ancora iniziato, in quanto il Contact Research Organisation di Pisa che dovrebbe distribuire i 300 pazienti iniziali nei primi 14 centri autorizzati non si è ancora mosso, anche se di certo partirà nei prossimi giorni.
“Gli schemi terapeutici all’estero sono molto simili a quelli che stiamo eseguendo in Italia – dichiara il prof. Drago commentando la situazione nel resto del mondo –, non fosse altro che noi abbiamo mutuato molte delle esperienze terapeutiche dalla Cina. Così come noi abbiamo mutuato le esperienze cinesi, altri in Europa e soprattutto negli USA stanno mutuando le nostre esperienze”.
L’Italia, infatti, è stata il primo Paese a mettere in campo la sua expertise per il trattamento del COVID-19. “Sicuramente, quindi, il mondo sta imparando da noi come trattare la malattia. Il Tocilizumab, per esempio, adesso è un farmaco utilizzato in tutta Europa. Il Remdesivir è usato negli USA per il fatto, almeno, che l’azienda produttrice è americana. Inoltre, negli Stati Uniti si usa molto la stessa idrossiclorochina. Gli schemi terapeutici che abbiamo sperimentato sulla nostra pelle sono esattamente quelli che abbiamo insegnato agli altri”, commenta il professore.
Infine, il prof. Drago riprende la questione della carenza di tamponi per la provincia etnea. Alcune sigle sindacali, come l’Ugl, negli ultimi giorni hanno denunciato una mancanza di tamponi e reagenti negli ospedali catanesi, lamentando anche ritardi nell’ottenimento dei risultati. “Questo disagio sicuramente è legato al fatto che il nostro è un laboratorio analisi che è stato incaricato di analizzare i tamponi per un numero rilevante di province, perché i tamponi che arrivano al Policlinico sono anche quelli di Enna, per un periodo almeno lo sono stati anche quelli di Siracusa”, commenta il docente, che, tuttavia, afferma di non occuparsi personalmente della questione.
“In una situazione di emergenza – conclude –, in una condizione come quella che stiamo vivendo che ricorda quella di una guerra penso che non si possa attribuire a nessuno la responsabilità di una disfunzione di questo tipo. Difficile dire se ci sia stata o meno una responsabilità. Penso, però, che il sovraccarico di lavoro per il nostro laboratorio sia stato davvero immenso in queste ultime settimane”.
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