Trascorsi i primi giorni di distanziamento sociale, il Prof. Sergio Paradiso, psichiatra e psicoterapeuta catanese, docente universitario per oltre 20 anni in America, risponde alle domande di LiveUnict in merito alle conseguenze dell’isolamento sulla psiche umana.
“Aveva l’impressione che la Storia si fosse già ripetuta migliaia e migliaia di volte, no, come se non ci fosse più un prima e un dopo, ma come se tutto fosse lì per sempre e contemporaneamente”, recita un passo de “La Storia Infinita“, oggi più attuale che mai. Il tempo come sospeso, in un “cerchio dell’eterno ritorno” che ci vede costretti nelle mura domestiche per motivi più importanti di qualunque attività ricreativa. Costante il pensiero a parenti e amici, il rimpianto per le occasioni perdute, i viaggi rimandati, la ripetitività delle giornate scandite dal ticchettio sempre uguale degli orologi delle proprie case.
La pandemia da Coronavirus ha alterato la quotidianità di tutti, in misure diverse; difficile ricreare tutti gli scenari possibili, ma la tendenza generale oscilla tra il pensiero avvilente della reclusione e la noia che può diventare un incentivo alla creatività: i genitori inventano giochi per intrattenere i figli, ci si dedica a nuovi hobby scoperti magari grazie a internet, che in questo periodo rivela tutta la sua utilità. “Si può essere perfettamente convinti di desiderare una cosa, […] fintanto che si sa che il desiderio non è realizzabile”, citando nuovamente Ende, perché avere del tempo per sé è un desiderio comune, ma non in queste circostanze e ora ci si chiede cosa accadrà quando tutto sarà tornato alla normalità.
A questo e altri quesiti ha risposto il Prof. Sergio Paradiso: psichiatra e psicoterapeuta catanese, ricercatore, conferenziere a livello internazionale e autore di numerosissime pubblicazioni scientifiche, ha insegnato per oltre 20 anni nell’Università dell’Iowa e in altri prestigiosi atenei americani.
Dall’inizio del periodo di distanziamento sociale abbiamo potuto notare, da una parte, una forte empatia, una spinta alla solidarietà, tra ingenti donazioni e iniziative per promuovere la speranza (flash-mob e hashtag dedicati), dall’altro invece l’opposizione di chi sminuisce l’entità dell’emergenza e continua a condurre la propria vita regolarmente. A cosa può essere dovuto tale comportamento anarchico?
Prima di tutto dobbiamo ricordare che il distanziamento sociale è sì un distacco fisico, ma ognuno di noi è parte di uno o meglio plurimi “gruppi” diciamo mentali (famiglia, lavoro, gruppo studio etc.) e quindi la propria mente non è mai isolata ma vive in constante relazione con altre menti. Esiste inoltre la relazione che ognuno di noi instaura con gli usi e costumi di una comunità (che ci vengono dati a partire dalla nostra nascita da persone in carne ed ossa come i genitori, ma non solo, e che permangono strutturalmente forgiando la nostra mente). Quindi a fronte di queste complessità non è difficile immaginare che le reazioni umane ad eventi limite (reali o immaginati) siano molteplici. In via generale però si può abbozzare una risposta più diretta, ovvero che in ragione della propria struttura di personalità un dato individuo può reagire ad un evento percepito come catastrofico attraverso la negazione della evidenza e continuare a vivere come se nulla fosse.
Esiste almeno un’alternativa a questo scenario. Bisogna anche ricordare che un “nemico” viene di solito evocato da chi vuole generare coesione in una massa. Individui diventano folla, e lo sanno bene i politici, se vi è un ideale comune che spesso può essere un agente esterno percepito come pericoloso dalla massa. Ecco nel caso del virus, la pulsione gregaria avviene “naturalmente” e può essere alla base di fenomeni coesivi e di franca solidarietà.
La paura ha poi creato un clima di diffidenza generale tra gli individui. Quali pensa che saranno le conseguenze di questo isolamento? È possibile perdere l’abitudine a relazionarsi con gli altri?
In parte la mia risposta precedente risponde anche a questa domanda. Più generale, penso che esiste nella società ipermoderna una tendenza a coltivare relazioni a distanza “mediate” dalla tecnologia e che ciò aumenti una tendenza generale degli individui alla protezione del sé. Diffidenza fino ad attitudini francamente paranoidi possono però incontrarsi con il fenomeno opposto, e francamente anche pericoloso, della troppa confidenza che alcuni accordano a chi incontrano sul web. Come ci dice la clinica, c’è il rischio reale che con l’uso smodato del web alcune capacità relazionali che per formarsi necessitano dell’incontro “di persona” potranno non svilupparsi in maniera appropriata. Tenderei comunque a considerare anche gli aspetti positivi di un buon uso di Internet per alleviare gli inevitabili momenti di solitudine.
Quali effetti potrebbe avere questo distacco sociale sui bambini e su chi già soffre di depressione o fobia sociale? Com’è possibile aiutare chi in questo periodo sembra maggiormente afflitto dalla situazione?
Quando si fanno previsioni nel campo delle scienze psicologiche e psichiatriche bisogna essere estremamente umili. Questo significa che dietro la depressione e la fobia sociale c’è sempre l’individuo le cui risorse e debolezze sono uniche. Le dirò che qualcuno (indipendentemente dalla diagnosi) in queste condizioni di emergenza potrebbe anche trovarsi paradossalmente bene. Per esempio, la situazione di crisi potrebbe non richiedere prestazioni al depresso, o socializzazione a chi soffre per dover incontrare l’altro. Ripeto col generalizzare si finisce certamente per sbagliare.
Aiutare. Credo fermamente che la parola e l’ascolto siano la via maestra d’aiuto per chi soffre. Per quanto riguarda i bambini, credo che sia augurabile per loro avere intorno persone che sappiano affrontare con serenità questo momento di crisi. Quindi, offrire ai genitori (e a chi viene allo studio per un consulto) dati volti a chiarificare con la scienza la congerie di notizie contrastanti sul contagio e conseguenze del contagio credo possa esser utile. Il trattamento dei disturbi d’ansia negli adulti credo possa avere ricadute positive sui figli minori.
Cosa consiglia a chi abita da solo, lontano da amici e familiari? E a chi invece non tollera più i propri coinquilini?
Non amo i consigli, non amo dare consigli. Direi comunque che si potrebbe provare a scrivere (penna e calamaio come una volta) ad amici e familiari lontani. Mi sono trovato quando lavoravo negli USA prima dell’invenzione di internet a scrivere a parenti ed amici. La scrittura avvicina. Poi la lettera si può imbucare o meno. “Una lettera arriva sempre a destinazione”, disse qualcuno più saggio di me.
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