Grande guerra e dialetto siciliano al teatro: questo è "Cunfini", lo spettacolo ideato dagli studenti dell'Università di Catania e altri giovani performer, sotto la guida e la regia di Andrea Lapi.
Il teatro ha sempre qualcosa in più da dire agli spettatori. Soprattutto quando tratta un argomento che è sempre stato presente tra i banchi di scuola o le aule delle università: così vicino ai giovani, eppure così lontano dall’essere capito appieno. Parliamo della Prima guerra mondiale, la “Grande guerra”, ma in una sede diversa, quella dove storia, eventi e documenti s’intrecciano con gli animi umani e con la contemporaneità.
Questo e molto altro ha voluto raccontare lo spettacolo teatrale “Cunfini – Sicilia e Grande guerra”, in scena nell’ambito di Porte Aperte Unict. Il progetto teatrale, rappresentato al Teatro Machiavelli, è stato curato dal Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania. LiveUnict ha incontrato il regista Andrea Lapi e i giovani attori-studenti Giuseppe Alizzi, Giulia Di Bella, Luisa Ferracane, Vanessa Girone, Paola Gusmano, Vera La Rosa, Chiara Manìa, Flavia Monfrini.
“Il progetto doveva essere sviluppato due anni fa, quando fu pubblicato il bando ministeriale, ma si sono presentati problemi di natura burocratica – afferma regista Andrea Lapi, ricollegandosi alla nascita del progetto – Il bando del Dipartimento di Scienze politiche e sociale, promuoveva l’iniziativa di creare uno spettacolo in grado di unire Sicilia e Grande guerra, rendendo gli studenti catanesi i protagonisti. Ero preoccupato di cimentarmi nel trattare un tema del genere, che è così diffuso tra i giovani e così vicino a loro, ma che non viene capito, né si cerca di capire per intero“.
“Prima di iniziare ho voluto subito consultare i documenti – ci racconta il regista – partendo dalla ricerca degli scritti di De Roberto, per passare alla documentazione fotografica e, infine, quella a cui ho dato maggiore importanza, la documentazione epistolare“. E in questo spettacolo non potevano mancare le lettere, in particolare l’emozionante scambio epistolare il soldato al confine (interpretato da Giuseppe Alizzi) e la moglie siciliana (interpretata da Paola Gusmano)
Andrea Lapi è stato sostenuto anche dall’esperienza in drammaturgia di Flava Monfrini, la quale ha regalato agli spettatori l’interpretazione di una lettera anonima spedita al Re dopo gli avvenimenti di Caporetto. “Il nucleo e lo stimolo che ci ha aiutato è stato pensare alla semplicità, all’ingenuità della gente e soprattutto di quei siciliani che ignoravano cosa stesse realmente succedendo ai confini del Paese“. Un’ignoranza diffusa – accompagnata dall’analfabetismo – che viene messa in risalto nel dialogo tra Giulia Di Bella, la donna siciliana che aveva appena ricevuto la lettera di suo marito a Caporetto, datata due mesi prima della disfatta, e Giuseppe Alizzi, il prete che doveva legger la lettera alla donna e che sapeva bene cosa fosse successo a Caporetto. Analfabetismo diffuso che viene raccontato meglio al momento del battibecco, su chi dovesse leggere la lettera, tra Flavia Monfrini, Vera La Rosa e Vanessa Girone, la quale alla fine strappa la lettera così da non farla leggere a chi sapesse leggere davvero.
“Bisognava raccontare non la storia, ma la realtà della vita dei siciliani: interrogarsi su chi c’era in Sicilia durante la guerra“, aggiunge il regista. I personaggi venivano creati pensando alla realtà del periodo tramite degli step di improvvisazione che hanno regalato al pubblico personalità veramente genuine; a tal proposito, l’attrice Vera La Rosa ha voluto sottolineare che anche da un errore di improvvisazione può avvenire un’accurata costruzione del personaggio, poiché “Nel teatro non esistono veri errori“.
Ma non solo la costruzione dei personaggi, anche la padronanza dell’ambiente: il palco era in mezzo al pubblico, attori e spettatori erano sullo stesso livello. L’idea di Andrea Lapi era quella di abbattere definitivamente la quarta parete, in modo da mettere il pubblico in posizione di captare un dramma celato dalle personalità dei personaggi e dai canti popolari, curati da Simona Di Gregorio e Matilde Politi. Un dramma che si celava anche quando Alberto Calì contrastava i canti popolari e il dialetto siciliano con degli accordi al pianoforte, in grado di evocare l’altra faccia della medaglia: non i ceti bassi – già rappresentati dalla scena e dei costumi ideati da Luisa Ferracane -, ma la borghesia e i salotti intellettuali.
Ma il titolo dello spettacolo ci riporta alla mente un tema molto attuale, quello del confine. “Se volevamo legare Sicilia e Prima guerra mondiale, dovevamo partire proprio da una parola in dialetto e perciò: Cunfini“, hanno spiegato Andrea Lapi e Flavia Monfini. E poi la frase al centro dello spettacolo: “‘N cunfini è unni finisci ‘na cosa e n’accumincia n’autra“.
“Questi confini che abbiamo voluto raccontare non sono mutati: dal 1914 al 2018, i confini non sono solo contemporanei, ma continui – dichiara il regista Lapi –. I confini continuano ad esistere e possono essere territoriali o intellettuali ed esistono per creare distanza, che porta all’odio e alla guerra“.
In effetti, la chiave di lettura contemporanea è questa: si è passati dal fare guerre per espandere i confini, come racconta la storia con le due guerre mondiali, a voler “difendere” i confini da chi non li ha mai attaccati. A tal proposito, il monologo iniziale di Chiara Manìa, sembra evocare un sentire diffuso nella contemporaneità italiana: “Ma questo Paese cos’ha da dare a questi stranieri che vengono qua?“. Da qui, probabilmente, iniziano ad esistere i veri confini.
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