Categorie: Cronaca

“Non è un paese per ricercatori”: Matteo Fini racconta il mondo universitario

Questa è la storia di illusioni, promesse e sogni svaniti nel nulla. Appartengono ad un giovane ricercatore universitario, una di quelle giovani “premesse” del mondo della docenza universitaria italiana. Dotato di intelligenza, sogni, pazienza e intraprendenza Matteo Fini, da più di dieci anni ha intrapreso la carriera universitaria, consapevole delle difficoltà che avrebbe incontrato ma con voglia di fare. Non immaginava però che alla soglia dei 40 anni, gli studi, i sacrifici e gli sforzi incontrati si sarebbero scontrati con la realtà, più ingiusta di ciò che ci si aspetta.

Matteo prova quindi a raccontarla questa realtà: lo fa dalle pagine di un libriccino in fase di pubblicazione, osteggiato fin da subito perché ritenuto fin troppo “scomodo”; riceve infatti una diffida che lo invita a non pubblicare il libro, e cancellare post dai toni sarcastici e allusivi su Facebook.

Matteo Fini, dalle pagine dell’Espresso, racconta di più sugli ingranaggi di questo sistema, che ad alcuni possono sembrare ovvi, ma di cui un giovane all’inizio della carriera, spesso, sottovaluta i rischi. L’inizio del percorso da ricercatore universitario è abbastanza lineare per tutti. Spesso si viene individuati dagli stessi professori, e questo conferisce fiducia in sé stessi e aspettative nel giovane laureando, inizialmente non pienamente consapevole delle regole del gioco. Una volta entrati, è difficile potersi sottrarre, in quanto le regole del gioco sono particolari, ma chiare una volta che si è dentro. Se vi vuol continuare si può solo soccombere al meccanismo. Fa carriera chi gode dell’appoggio di un protettore, che, però, può decidere di sostenerti come di abbandonarti all’improvviso, come nel caso di Matteo. Gli aneddoti da raccontare sono molteplici. Ecco alcuni esempi:

Concorsi, primo esempio. La penna blu e nera. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo. A me una volta è capitato che a metà prova si siano accorti che alcuni stavano scrivendo in blu e altri in nero. A quel punto ci hanno consegnato delle penne uguali per tutti, e siamo ripartiti daccapo. A fine prova mi sono accorto che c’erano degli stranieri che avevano scritto nella loro lingua natìa… Ma con la penna uguale alla nostra, eh!”.

Concorsi, parte due. La salita è in discesa. “Qualche anno fa sono andato a fare un concorso per un contratto di un anno fuori sede.  Ogni ricercatore, o simile, è come affiliato al dipartimento di provenienza e ogni volta che prova a partecipare a un concorso in un altro ateneo è come se andasse in guerra”.

Aggiunge: “Il posto era per un assegno di ricerca in Economia e gestione delle imprese. Ci presentiamo in tre. Il vincitore, il fantoccio e io. C’è sempre un fantoccio. Quello che deve fare presenza, ma perdere. Per non dare l’idea che il concorso sia ad personam. Purtroppo per loro però, inavvertitamente, mi ero iscritto pure io. E risultavo tremendamente più titolato degli altri due, vincitore compreso”.

Gli specchietti per le allodole dell’assegnazione dei fondi. Matteo dice che: “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto alimentato dal blasone dei docenti unitisi (professori che magari fino al giorno prima neanche si salutavano). Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie (pubblicazioni, acquisto di pc all’ultima moda ecc.). Che fine fanno i ragazzi coinvolti? Bene che vada si spartiscono le briciole”.

Pubblicazioni universitarie. Libri fai da te. “Molti docenti scrivono libri che poi adottano a lezione, naturalmente, e molto spesso gli editori glieli fanno pagare fino all’ultimo centesimo, della serie “Ti pubblico, ma tu devi comprarne 5 mila copie”.  Aggiunge che: “Mica li acquistano con portafogli personali, i suddetti saggi; no, ordinari e associati amano invece attingere liberamente dai fondi di dipartimento, che pure magari erano destinati a qualche ricerca seria e pluripremiata”.

Seminari e riviste fanno curriculum. “Spesso i dipartimenti organizzano seminari (sempre coi soldi dei fondi) il cui unico scopo è quello di presentare i propri lavori, perché così quel lavoro finirà dritto ne “gli atti del convegno”, che è una pubblicazione, e che quindi va a curriculum, fa massa, valore, prestigio, carriera, altri soldi.

“C’è una lunga teoria di riviste – continua – che esistono solo per pubblicare gli atti di questi convegni: periodici clandestini, che pubblicano indiscriminatamente. Ci sono poi dipartimenti che le riviste se le creano da sé. È un circuito drogato, che lievita, ma su impasti veramente fragili”.

 

 

Giusy Palazzolo

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Giusy Palazzolo

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