Con la sentenza 104/2017, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, con riferimento agli art 33, 34 e 76 Cost., della norma che definiva il costo standard, parametro utilizzato per la distribuzione tra gli atenei del FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario) delle Università. Il metodo, adottato a partire dalla legge Gelmini, attraverso il D.lgs 49/2012 era stato affidato alle mani dell’esecutivo, quasi nella sua totalità.
La questione potrebbe essere riassunta utilizzando le parole della Consulta così: “In astratto, il costo standard potrebbe essere inteso in due modi: come costo medio sostenuto dalle università italiane per formare uno studente; oppure come costo medio che una determinata università sostiene per formare un proprio studente.” Il legislatore non ha affatto chiarito il concetto di costo standard, mentre l’amministrazione ha “combinato in modo promiscuo e complessivamente contraddittorio i due modelli”. Ne sarebbe venuto fuori “un pasticcio, in virtù del quale le Università ricevono un finanziamento che non è commisurato né ai propri costi standard, né al costo medio standard di tutti gli atenei italiani, bensì ad una miscela del tutto incomprensibile dell’uno e dell’altro elemento“. Questa è la conseguenza dell’assenza di una mediazione parlamentare, dietro il conferimento dei fondi all’Università. Ciò determinerebbe lo strapotere del Governo, che senza una legge delega dettagliata, può decidere in merito a ogni argomento, senza dover conformarsi ad alcun limite.
Le minuzie di una norma vengono affidate in larga parte dall’Esecutivo, solo nel momento in si scada in un ambito meramente tecnico, per cui urgono delle competenze precise. Non è questo il caso. Secondo la Consulta: “i profili squisitamente tecnici– indubbiamente consistenti, delicati e mutevoli– sono frammisti ad altri, di natura politica: esulano dall’ambito meramente tecnico, ad esempio, le decisioni in merito al ritmo della transizione dal criterio della spesa storica a quello dei costi standard; o quelle relative all’ identificazione e al peso delle differenze tra i ‘contesti economici, territoriali e infrastrutturali’ in cui operano le varie università”.
È chiaro, dunque, che perlomeno degli indicatori sarebbero dovuti essere presenti in una legge delega, che tendesse a bilanciare i diversi interessi: il potenziale di ogni università dovrebbe risultare parametro utile, così come il suo contesto. Contemperare questi diversi profili è compito del Parlamento, l’unico in grado di rappresentare tutte le parti in causa, e che non si usa di “formule matematiche ed algoritmi” per determinare questioni di così larga importanza.
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