Al Teatro Greco di Siracusa, in occasione del 52° ciclo di Rappresentazioni Classiche, in scena il dramma delle donne. L’Istituto Nazionale del Dramma Antico, anche quest’anno, ha portato in teatro l’antichità con le tragedie dirette da Gabriele Lavia e Cesare Lievi.
Nell’antico scenario greco ritornano a vivere l’Elettra di Sofocle e l’Alcesti di Euripide, due donne emblema del coraggio, ma entrambe vittime di una violenza umana o di un volere superiore.
Elettra (Federica Di Martino) entra in scena con un abito sporco, strappato, nero. Un abito che non rispecchia la sua posizione sociale, ma il dramma che vive a causa dell’uccisione del padre per mano della madre. È un Elettra abbandonata al suo dolore, chiusa nel ricordo di Oreste (Jacopo Venturiero), il fratello lontano, poi creduto morto e, infine, riconosciuto nella terra del padre defunto. Ed è il dolore per la perdita di quest’ultimo a superare quell’amore mancato, sin dall’infanzia, nei confronti di una madre carnefice, Clitennestra (Maddalena Crippa). Una tragedia luttuosa, segnata dal sangue che inevitabilmente si riversa all’interno della famiglia e che può essere fermato solo se versato un ultima volta dalla madre, colei che aveva dato origine a quella catena di dolore. Ed è questo sentimento che ha spinto l’attrice protagonista a muoversi sulla scena ripiegata su se stessa e seguendo un ritmo spasmodico, quasi un ricordo delle tarantate che, stando alle memorie dei più anziani, si contorcevano per terra. E così Elettra e tutti gli uomini che vivono un dramma profondo si muovono “in uno spazio ristretto, angusto, angoscioso. Nella prigione della propria libertà”, come ha affermato il regista Lavia. Questo spazio non può che essere messo in scena con l’essenzialità, frutto di una distruzione interiore prima che materiale, che le scenografie di Alessandro Camera hanno riprodotto proiettando di fronte allo spettatore l’immagine di un palazzo quasi immaginario e perduto nei secoli. Un immaginario che non ritorna nel rosso dominante delle scene dell’Alcesti realizzate da Luigi Perego. Lo scheletro rosso della casa in cui si muovono i protagonisti, primo tra tutti Admeto (Danilo Nigrelli), tra il dramma per la morte di Alcesti (Galatea Ranzi) e la comicità improvvisa di Eracle (Stefano Santospago), diventa la porta attraverso la quale gli occhi dello spettatore sono condotti ad osservare contemporaneamente più scene. Al tono funebre della tragedia si è mescolato quello dell’amore, entrambi segnati da quel rosso che mai ha abbandonato la scena e che ha condotto alla salvezza, quest’ultima sicuramente simboleggiata dall’unico abito bianco in scena indossato da Alcesti. Una lettura della tragedia euripidea a tratti moderna per la presenza di un funerale dei nostri tempi, un funerale non estraneo alla scena perché gli oggetti “dimenticati” dal corteo funebre non sono passati inosservati agli antichi protagonisti del dramma. Il nostro dolore di fronte alla morte non trova consolazione se non nel tempo, ma Euripide ci dà la possibilità di rivedere ancora una volta, nel finale, Alcesti sacrificatasi per amore. Fantasma? Sogno? Immaginazione? Il marito Admeto e gli spettatori non lo sanno, ma il regista Lievi ha dato la chiave di lettura ai suoi spettatori e a chi leggerà le pagine dell’Alcesti: “Euripide ci lascia nel dubbio. L’importante ad ogni modo è che la donna (Alcesti o il suo fantasma) ritorni al luogo che nella società greca le è deputato: la casa. E tutto ritorni come prima. Lieto fine! (?)”.
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