Avevamo già parlato dello schema del decreto ministeriale che si prefigge di rendere attuativo l’articolo 43 della riforma forense, L. 247/2012, riguardante la disciplina dei corsi di formazione alla professione. “Non solo saper fare, ma anche saper essere avvocato” recita il parere del Consiglio Nazionale Forense, tentando forse di dare una linea guida alla disciplina che il legislatore si appresta a confermare.
Il parere suggerisce alcune modifiche e migliorie, ad esempio fissare il carico ore in 160, distribuite in 18 mesi e organizzate in maniera tale da non ostacolare l’assistenza in udienza e la frequenza dello studio legale, tentare di creare programmi omogenei per facilitare lo spostamento dei praticanti tra una scuola e l’altra, che siano accessibili per tutti a livello economico e in termini di distribuzione sul territorio.
La vocazione del corso dovrebbe appunto essere quella di potenziamento di un percorso già intrapreso con il dominus, puntando alla deontologia, alla redazione di pareri e alla gestione pratico organizzativa di uno studio. Il dato che più di tutti rende inquieti gli studenti e i laureandi è che i corsi potranno essere a numero chiuso.
Se, come è ovvio che sia, gli studenti hanno accolto con apprensione la notizia, ci siamo chiesti quale fosse il parere di chi la professione la esercita già e si trova già “dall’altro lato della barricata”. Mauro Di Pace, giovane avvocato amministrativista del foro di Catania, ci ha offerto una analisi quanto più concreta su quelle che potrebbero essere le conseguenze di tale numero chiuso.
“Anche se dal lato egoisticamente personale, e solo ad una prima analisi sommaria, una scelta in tal senso potrebbe convenirmi, chi ha pensato la riforma, almeno per quanto riguarda il numero chiuso, non ha tenuto conto che le misure protezionistiche creano sempre una serie di problemi che non sono facilmente preventivabili e sicuramente non fanno bene né a chi deve accedere alla professione né a chi vi ha già avuto accesso.
Banalmente, potremmo assistere ad una contrazione del mercato, quindi meno soldi e meno concorrenza e come diretta conseguenza prezzi più alti per le prestazioni, perdendo di vista il fatto che quella di avvocato non è una professione come le altre ma svolge un ruolo pubblico imprescindibile; se la possibilità di tutela non è accessibile ed effettiva per tutti, lo stesso diritto alla difesa cessa di avere senso.
Le soglie economiche per accedere al gratuito patrocinio sono ridicolmente basse (diecimila euro l’anno per nucleo familiare) e ben al di sotto della soglia di povertà; rendere un mercato già attualmente complesso e dai costi non proprio bassi ancora meno accessibile a chi, magari perché guadagna dodicimila euro, non può permettersi di depositare una causa, significa relegare la tutela dei propri diritti a lusso per soli ricchi.
Senza contare, oltretutto, che passare un esame non certifica che si farà un buon lavoro da professionisti ed è necessario che il mercato faccia il suo corso premiando i più meritevoli, sul campo. Infine, nel momento in cui si iscriveranno drasticamente meno giovani avvocati all’ordine, riducendo quindi gli introiti della cassa forense, come pagheremo le pensioni di chi ha versato per una vita contributi?”.
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