Il 2015 è un anno importante per il panorama letterario italiano. Un nome, troppo spesso offuscato dalla critica, è stato celebrato in occasione del Centenario della sua morte. Parliamo di Luigi Capuana, scrittore menenino e padre del Verismo italiano. Un anno di festeggiamenti, ma quelli definiti “ufficiali” sono arrivati soltanto da qualche settimana. Per “ufficiali” intendiamo quelli che portano i nomi che costituiscono il Comitato Nazionale dei festeggiamenti, sembrerebbe un po’ tardi se consideriamo che l’anno capuaniano sta per terminare.
Eppure, in questi mesi, non sono mancate le iniziative indipendenti destinate a celebrare lo scrittore. Da gennaio, infatti, molti ragazzi si sono impegnati per dare una degna rilevanza a Capuana. Così in alcune città della Sicilia sono cresciuti due gruppi che hanno avuto un solo scopo: realizzare incontri, reading letterari e conferenze dedicate allo scrittore. Mineo ha omaggiato lo scrittore grazie a #ioleggocapuana, iniziativa indipendente nata dall’idea del Dott. Mario Luca Testa e Agrippina Novella, e Ispica con il gruppo Ispica città del Profumo. Due città con iniziative autonome che, tuttavia, si sono incontrate per ricostruire quel ponte che Capuana aveva instaurato cento anni fa.
Lo scrittore menenino, però, aveva legami anche con la Francia e per questo motivo abbiamo incontrato il suo traduttore francese, Olivier Favier.
Olivier Favier è specializzato in teatro e poesia contemporanea, si occupa di letteratura della fine del XIX secolo, scienze umani, storia e storia dell’arte e a noi di LiveUnict ci ha raccontato cosa significa essere traduttore e lavorare oggi su un romanzo dell’Ottocento.
Le sue risposte non possono che generare una lunga riflessione sulla situazione dell’editoria e del valore della cultura ai giorni nostri.
1. Sei stato insegnante oltre che traduttore. Quale dei due lavori senti più vicino a te e perché?
Sono due mestieri del tutto diversi. Mi piace insegnare perché mi piace raccontare, condividere, portare la vita di fuori, il visto e il vissuto, dentro le classi. Ho la fortuna oggi di insegnare qualche ora all’università dove trovo una bella libertà. Il peso dell’amministrazione mi da fastidio e ho scelto tanti anni fa di lasciare il lavoro di insegnante al liceo proprio per questo. Il lavoro di traduttore invece è una specie di meditazione, ma a lungo diviene anche fastidioso. A me piace sopratutto fare mestieri e esperienze diversi, insegnante, traduttore, ma anche interprete, giornalista, fotografo… E il lavoro che considero il più importante è quello che faccio col mio sito, dormirajamais.org. Non è pagato, ma è quello che mi fa vivere. Per me il senso di quello che fai vale molto di più del denaro.
2. Cosa significa tradurre un romanzo dell’Ottocento ai giorni nostri?
Per gli altri non lo so. Per me l’Ottocento è il secolo della letteratura, o meglio il secolo del romanzo. Non leggo la narrativa di oggi, preferisco andare al cinema. La letteratura di oggi secondo me dovrebbe affrontare la realtà, confrontarsi con il reportage. In Francia si fa pochissimo, o male. Un punto di riferimento per me, quando si parla di romanzo-reportage, è un altro scrittore italiano dell’Ottocento, Edmondo de Amicis, due libri che sono “Sull’oceano” et “La carrozza di tutti”. Ha inventato una forma nuova di letteratura un mezzo secolo prima di Truman Capote.
3. In Italia, quando si parla di Verismo, si fa riferimento subito agli scritti di Verga e De Roberto, dimenticando il padre di questa corrente letteraria. Come ti sei avvicinato a Capuana?
Mi piaceva “Giacinta” perché mi sembrava un’opera prepsicanalitica. In questo senso, è un’opera più moderna di “Madame Bovary” di Flaubert o di “Une vie” di Maupassant. Rimane un libro di stile diseguale, ma porta sulla condizione femminile uno sguardo acuto, privo di pregiudizi. Non è il caso dei grandi romanzi francesi della stessa epoca.
4. Giacinta è la prima opera scritta in Italia con chiare influenze naturaliste, derivanti dalla produzione letteraria di Balzac che Capuana conosceva bene. Quali sono gli aspetti che accomunano le due produzioni e che hai avuto modo di evincere?
L’ho letto pensando a Stefan Zweig più che a Balzac, per me è un romanzo laboratorio, non perfetto ma in anticipo sui tempi, non è un caso unico nella produzione artistica italiana.
5. Perché hai scelto di lavorare su questo romanzo?
Perché era un ottimo ritratto di donna. Per capire il mio rapporto di allora con certe donne.
6. Capuana non lasciò mai l’Italia per visitare la Francia, eppure la conosceva bene grazie agli scambi epistolari con i Naturalisti e alla lettura delle loro opere. In che modo, secondo te, la Francia ha influenzato la scrittura di Capuana? Sapresti indicare o individuare l’inizio di tutto?
Ho detto di Flaubert. Mi sembra, sì, una risposta a Madame Bovary.
7. Hai tradotto una sola opera dello scrittore menenino. Perché non continuare a lavorare sulle sue produzioni, magari in occasione del Centenario della sua morte?
Perché nessuno non vuole più pubblicare autori italiani dell’Ottocento. L’editoria è diventata sempre più commerciale questi ultimi anni.
8. Il pubblico dei lettori francesi come ha reagito alla lettura di Giacinta?
È rimasta un’opera di nicchia. Mi ricordo però di qualche articolo appassionato. So che è piaciuta a un paio di lettori. La casa editrice è chiusa qualche mese dopo la pubblicazione e il libro non si trova più in libreria ormai.
9. Capuana, in Italia è considerato un minore e non trova spazio nei testi di scuola. Secondo te è da considerare un minore? Qualora la risposta fosse negativa, in cosa hanno sbagliato gli studiosi e cosa si sarebbe dovuto fare per evitare quest’ombra?
Eccetto Manzoni, Leopardi e qualche romanzo di Verga, l’intera produzione letteraria dell’Ottocento italiano viene considerata minore. Fuori dell’Italia, non esiste, o quasi. La stessa cosa vale per la pittura. Un giorno, durante un viaggio ferroviario, uno studente italiano mi ha detto: “Ma ti interessi ai sottoboschi!”. Non era certo un complimento, però la metafora per me era perfetta. Il profumo dei sottoboschi è lo stesso dei libri, un po’ familiare e un po’ selvaggio. Detto questo, minore o maggiore per me non significa nulla. Arrigo Boito, Luigi Capuana, Edmondo de Amicis, I.U. Tarchetti mi hanno insegnato molto. Sulla vita, la scrittura. Non mi sento di dare un voto a quelle opere che mi hanno fatto crescere.
10. Capuana, ha bisogno di nuovi studi che magari partano proprio dalla Francia, ti sentiresti di essere il promotore di una nuova generazione di studiosi?
No. Non sono uno studioso. La prefazione che ho scritta era del tutto personale. Non concepisco un rapporto colla letteratura che non sia un incontro. Un surrealista francese diceva: “Ho tanti amici nei cimiteri.”
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