Ricordo bene quando, matricola, mi dissero: “Ti divertirai a lezione di *** con piè veloce”. All’inizio non capii perché il collega lo aveva chiamato così: sapevo che il professore non era giovanissimo, ma non mi aspettavo certo di vederlo arrivare col… bastone! Da quello, il soprannome.
Questo aneddoto può fare sorridere, ma cela una realtà meno divertente. Quanti di noi, a lezione, si ritrovano professori che possono partecipato alle Guerre Puniche? Molti, temo.
E quanti di noi li vorremmo più giovani? I più, immagino.
Di poche ore fa le parole del Presidente del Consiglio a riguardo:
Giovani, preparati. E “intrappolati”.
Matteo Renzi l’ha definita così, illustrando la Legge di stabilità del ministro Giannini, la condizione dei professori universitari: “Impantanati in percorsi aleatori. Invischiati in un sistema che non valorizza il merito. Condannati, prima di conquistare una cattedra, a invecchiare”.
L’istantanea che il Miur consegna, ricavata dalla Banca dati dei docenti di ruolo 2014, è sconcertante: su 13.263 professori ordinari, i titolari di cattedra in atenei statali con meno di 40 anni sono solo sei. E il trend è impietoso: l’innalzamento dell’età media, in Italia, prosegue da 25 anni. Dal 1988 al 2013 l’età è aumentata di sei anni, raggiungendo quasi i 52 anni: per gli ordinari la media è di 59 anni, 53 per gli associati, 46 per i ricercatori, secondo l’ultimo Rapporto Anvur sullo stato del sistema universitario e della ricerca. E se la presenza delle donne è cresciuta, passando in 25 anni da 26 a 36 ogni 100 docenti (ma tra gli ordinari la percentuale è del 21 per cento), dal 2008 al 2013 la riduzione dei ricercatori ha penalizzato anche loro.
Sono solo sei i magnifici, gli unici ordinari under 40, che “l’Espresso”, noto settimanale, è riuscito a individuare, e (udite udite) sono tutti maschi. Tutti nati nel 1976. Insegnano a Palermo, a Sassari, a Napoli, a Messina e a Bologna, quasi esclusivamente discipline economico-giuridiche. Nella metà dei casi hanno seguito una tradizione di famiglia. All’unanimità ammettono: «Siamo solo i più fortunati».
Alessandro Baldi Antognini, insegna Statistica all’università di Bologna e dal momento che di calcoli delle probabilità è un esperto, dà la misura dell’eccezionalità. “Turn over dei docenti bloccato; scarsi finanziamenti per nuove cattedre”: la spiega così, la trappola. Come l’ha evitata? “Con un valido dottorato di ricerca, durante il quale ho lavorato molto e ho fatto esperienze umane importanti. Ho avuto maestri veri, che hanno favorito esperienze internazionali”: una cosetta da niente, insomma. “L’Italia dovrebbe favorire forme di finanziamento trasversale per attività di ricerca”.
E c’è chi fa persino peggio della media: La Sapienza di Roma, il più grande ateneo d’Italia e d’Europa: “L’età media degli ordinari nel 2015 è addirittura di 61,9 anni. E ancora più preoccupante è l’età media dei ricercatori: 52 anni”, dice il rettore Eugenio Gaudio che, al contrario, può vantare una carriera lampo: “Ho avuto la ventura di vincere la cattedra a 38 anni. La Sapienza è un’università antica e prestigiosa, spesso il punto di arrivo di una carriera, ma è chiaro che quando l’età è così alta c’è un problema, che chiama in causa l’intero Paese: perché la produttività migliore è tra i 20 e i 40 anni. Dopo, si può essere ottimi docenti, con una formazione sedimentata ed esperienza in più: ma la carica innovativa e creativa è inevitabilmente diminuita”.
Quella di Iunio Iervolino, ordinario di Tecnica delle Costruzioni alla Facoltà di Ingegneria della Federico II di Napoli, 39 anni, un cognome evocativo ma niente da spartire con l’ex sindaco (“Mia madre insegnava latino e greco, mio padre era ingegnere. La sua perdita, da piccolo, è stata una delle motivazioni più forti ai miei studi”), si percepisce a distanza: “Sono competitivo, ho una volontà forte. Queste caratteristiche contano eccome”, dice. Iervolino si occupa di terremoti, parla dall’Olanda e sta per volare in California. “L’ingegneria ha una grande tradizione in Italia. Non ho mai visto applicato un criterio di anzianità a scapito dei giovani. Certo mi ritengo un privilegiato. Perché la conseguenza di questo innalzamento dell’età è che i migliori vanno via, e l’ottima formazione si riversa altrove. Però, ho l’impressione che qualcosa stia cambiando. A prescindere dalle qualifiche, vedo molti giovani che fanno ricerca, viaggiano, collaborano. Se i giovani sono pochi, siamo penalizzati anche nell’accesso ai fondi: esistono bandi europei su progetti internazionali, destinati in ragione dell’età: perdiamo anche quelli”.
Ci sono, poi, i progetti di ricerca per ricercatori junior, finanziati dallo European Research Council, che registrano il deficit: sono stati 127, a fronte dei 495 della Gran Bretagna, i 326 della Germania o i 314 della Francia. “La disponibilità a muoversi è fondamentale”, aggiunge Luca Corazzini, ordinario di Economia Politica a Messina, dopo aver insegnato a Padova; nato a Modena, cresciuto a Pescara, residente sul Lago Maggiore. “Dopo la laurea in Economia alla Bocconi e il dottorato in Diritto internazionale ho ottenuto un PhD alla University of East Anglia di Norwich sotto la supervisione di Roberg Sugden. Ho trascorso cinque mesi all’Università di Miami. E ho frequentato laboratori sperimentali. Sono stati passaggi importanti”, dice. “Ho scoperto la bellezza di fare ricerca in squadra. Certo, io sono passato da ricercatore ad associato in tre anni e ho ottenuto l’idoneità prima del blocco del reclutamento”.
“I ripetuti cambi nelle modalità di reclutamento dei docenti hanno creato una situazione di incertezza”, spiega Gaudio: “Oggi il prerequisito tecnico ai concorsi è rappresentato dalle abilitazioni. L’ultima è stata nel 2012. Ma anche conseguita quella, non è detto che si accederà a una cattedra. Ci sono ragioni sia qualitative che quantitative dietro un’età dei docenti così alta: da una parte i concorsi sono complessi, prevedono curriculum avanzati; dall’altra, le risorse sono scarsissime, al punto da rendere quasi impossibile l’accesso a una cattedra. Quest’anno, il Fondo di finanziamento ordinario che lo Stato trasferisce alle università, e che ne rappresenta la principale fonte di sostentamento, è lo 0,42 per cento del Pil: in Germania e in Francia è dello 0,90 per cento. La Sapienza è passata da 5.000 docenti a 3.800, e non è in grado di avviare un turno over”.
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