Tutti gli otto imputati del primo processo, docenti e dirigenti dell’ateneo catanese, sono stati assolti con la più ampia delle formule che il codice di rito contempli: perché il fatto non sussiste. Essa non significa che “non è successo niente”, ma che in sede processuale non si è dimostrato che la supposta omissione o imperfetta applicazione di regole precauzionali e di igiene abbia prodotto alcuna alterazione della salubrità degli ambienti con conseguenti rischi sulle persone. Questa la verità processuale come è dato leggerla a partire dal dispositivo della sentenza. Lo scrupolo garantistico nei confronti di qualunque imputato e il rispetto nei confronti della magistratura impongono di non commentare tale verdetto e di attendere che di esso si conoscano le motivazioni per poter ricostruire l’iter argomentativo che lo sostiene. Tuttavia, sin da ora si potrebbe, e forse si dovrebbe, considerare che teso alla ricerca della verità, oltre quello dei giudici, è stato anche, per alcuni anni, il lavoro delle associazioni (Codacons, CGIL, Cittadinanzattiva) che si sono costituite parti civili nel processo offrendo una lettura dei fatti sensibilmente diversa da quella asseverata dalla Corte; teso alla ricerca della verità è stato il lavoro del Pubblico Ministero, anch’egli parte della magistratura e vincolato dal Codice di rito (articolo 358) a svolgere accertamenti anche su elementi favorevoli agli imputati, il quale aveva chiesto la condanna a pene tra i tre e i quattro anni di reclusione per ognuno dei soggetti coinvolti (peraltro in concomitanza con una parallela richiesta di archiviazione per il più grave delitto di omicidio colposo plurimo); infine, teso alla ricerca della verità è stato certamente il lavoro di ricostruzione svolto dalle famiglie di molti studiosi (e dai rispettivi legali) che nei locali di farmacia hanno lavorato e che, negli ultimi anni, hanno perso la vita per effetto di gravi patologie tumorali.
Ricordiamo, infine, che ispirato alla ricerca della verità, alla tutela della salute delle persone e al rispetto della legge era stato il provvedimento con cui nel 2008 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catania aveva posto sotto sequestro un’area dei locali del dipartimento di farmacia ritenendola, all’esito di un’indagine tecnica, “contaminata dalla presenza di sostanze pericolose in percentuali elevatissime”.
Nessuno ignora che molto spesso la verità sostanziale può non coincidere con quella processuale ed è giusto che in un ordinamento che ha a cuore la libertà dei cittadini non sia decisivo ciò che, più o meno diffusamente, si suppone ma ciò che si può dimostrare nel modo più rigoroso e consequenziale. Rimane il fatto che il processo sul “caso farmacia” non si è definitivamente concluso. Suoi possibili sviluppi potrebbero ribadire la tesi dell’assoluta correttezza dell’operato dell’ateneo catanese o potrebbero, in teoria, renderla meno stentorea di quanto al momento essa non appaia. Se può non sussistere alcun fatto illecito nella vicenda qui richiamata, sussiste nondimeno il pesante dubbio che molte vite di persone spezzate o danneggiate da malattie affini siano solo l’effetto di un’amara e beffarda coincidenza. Con il rispetto verso le opinioni di tutti, una comunità accademica trasparente dovrebbe forse essere capace di coltivare anche questo dubbio sino alla fine.
CUDA (Coordinamento unico di ricercatori, docenti, PTA, precari e studenti dell’Ateneo di
Catania per un’Università pubblica, libera e democratica)
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