Intervista a Furious Georgie

Furious Georgie è il moniker del progetto solista con cui Giorgio Trombino, cantante e musicista palermitano, si affaccia nel panorama indie-rock nazionale. Lo fa in veste di cantautore, un ruolo piuttosto distante da quelli affrontati nei suoi gruppi (Haemophagus, Sergeant Hamster, Elevators to the Grateful Sky, The Smuggler Brothers, Il Tempo del Cane…) e che lo vede affidarsi quasi esclusivamente al suono della sua chitarra acustica, almeno per il momento. Ad uscirne è una manciata di canzoni che sembrano arrivare da una qualche sperduta provincia americana e invece sono frutto di un’esperienza maturata nel corso degli anni e di una vena cantautorale che rende omaggio a vecchi e nuovi maestri (il Neil Young più fumoso e intimista, il cantautorato storto di Syd Barrett e di Kevin Ayers, lo stile di Elliot Smith, un afflato trascendente vicino a una parte della produzione di George Harrison e Claudio Rocchi).

Registrato a Palermo negli studi della neo-nata etichetta Tone Deaf Records, You Know It è un disco che guarda altrove, come a volersi ritagliare uno spazio stilistico tutto suo, lontano dai clamori della ribalta ma vicino – per ispirazione e immaginario poetico – alle più defilate produzioni di scuola Rough Trade. Difficile tracciare la rotta del viaggio: psych-folk, blues e country sono i binari lungo i quali si muovono le 12 canzoni in scaletta, dal blues ruspante di Giggrind alla dolente invocazione di Lost and Found, dall’incedere desertico di Years Gone by al sapore lo-fi di Armed Peace. La destinazione? Un luogo sospeso dove prendono forma fantasmi, visioni e soprattutto canzoni. Cristina Chinaski l’ha incontrato e l’ha intervistato per LiveUniCt.

“You know it”. registrato a Palermo negli studi della neo-nata etichetta Tone Deaf Records, è il tuo primo disco solista dopo aver fatto parte di numerosi gruppi. Com’è nata l’esigenza di vestire i panni del cantautore?
In realtà non ho mai sentito l’esigenza di essere un cantautore in senso stretto, in senso “italiano”. Nel 2007 circa – e saltuariamente anche prima – cominciai a scrivere dei testi più intimi e introspettivi, o comunque non legati all’estetica death metal o stoner dei miei gruppi Haemophagus o Sergeant Hamster. Furious Georgie è una parte di quello che faccio, e difficilmente potrei ritenermi soddisfatto entro i limiti di questo progetto se non potessi suonare anche nei suddetti gruppi, negli ETTGS, negli Smuggler Brothers e così via.

“You know it”, è un viaggio dove visioni e stati d’animo si intersecano su uno sfondo folk fatto di chitarre acustiche ed armonica. Com’è nato questo disco?
Il disco raccoglie una serie di brani scritti in un arco temporale di quattro anni, quindi non venne concepito come un progetto unitario. Dal punto di vista formale, desideravo fare qualcosa di piuttosto essenziale e diretto, senza tanti orpelli, con una focalizzazione sul rapporto fra voce, chitarra e poco altro. Questo vale per la maggior parte dei pezzi, ma ci sono anche momenti dagli arrangiamenti più “densi” come NGC 6543, Screaming Parrot Blue o Kiwi Roll.

Tranne “NGC 6543“, il resto dell’album è interamente scritto e cantato in inglese. Come mai questa scelta?
Non è una scelta esterofila. L’inglese è la lingua con la quale sento di potermi esprimere meglio, la più duttile per l’articolazione di questa musica, anche nei suoi suoni più aspri. È il veicolo di molta musica che amo. Detto ciò, desidero inserire almeno un brano in italiano in ogni disco di furious: nel prossimo album il pezzo in questione si intitolerà Lascia Spazio al Vuoto.

Cosa ne pensi della scena musicale siciliana?
Eccellente, varia, potenzialmente esportabile, ma troppo spesso limitata dalle acque che ci circondano. Le cose, però, stanno cambiando. La storia della musica underground in Sicilia è ricca di momenti luminosi, vedi Nuclear Symphony, Airfish, Kali Yuga, Dry Leaf, Indicative, Uzeda, Schizo, Homunculus Res, Urania, Concreat, Don Santos, Swa, Un Giorno Disperato, Daemonokrat, Too Much… per ricollegarmi al nome dell’ultimo gruppo citato, c’è davvero troppa roba per stilare una lista completa.

Ascoltando il tuo disco, la prima influenza che ho percepito è stata quella per Neil Young. Quali artisti ti hanno influenzato nel corso della tua vita, e cosa preferisci ascoltare maggiormente?
Come furious risento un po’ dell’influenza di Neil Young, anche se alla lunga mi annoia brutalmente. Negli anni ho lasciato che interferissero liberamente altre cose sulla musica di questo progetto: in particolare la roba solista di Daevid Allen, i Can, John Fahey, George Harrison, Claudio Rocchi, gli Aktuala, Jesse Sykes and the Sweet Hereafter e via dicendo. Ho smesso di avere un genere preferito e i miei ascolti sono piuttosto schizofrenici. Nell’ultimo periodo ho ascoltato molto John Legend, la sinfonia Popol Vuh di Alberto Ginastera, Musica per Archi, Percussioni e Celesta di Bartòk, Beyoncè, i Challengers, i Machetazo…

In “Day of the Dead”, blues cupo lento, fai riferimento ad un possibile ritorno dei defunti sulla terra. Se dovessi accostare la tua canzone ad un film, mi verrebbe in mente qualcosa di Romero, o di Fulci. Qual è il tuo rapporto con il cinema?
Grazie per l’accostamento col maestro, eccessivo ma efficace. Probabilmente i generi che ho approfondito di più sono l’horror e lo splatter, ma il mio film preferito è Il Grande Lebowski, da sempre. L’influenza del Drugo è stata determinante su tutta la mia vita.

“Ignorance – (Avidyā)”, è il quinto brano del tuo disco. Avidyā è un termine sanscrito che designa l’ignoranza nel buddhismo. Per te l’ignoranza è la causa di tutti i mali del mondo? E perché hai scelto di utilizzare una parola buddhista?
L’ignoranza in quanto Avidyā, uno dei cinque veleni secondo il buddhismo insieme ad attaccamento, rabbia, orgoglio e gelosia, non è da intendersi in senso strettamente fenomenico. L’ignoranza è una condizione atavica dell’uomo, un freno fisiologico alla conoscenza del mondo. Nel testo, per la verità abbastanza ironico, ne vengono indagati gli effetti concreti sull’esistenza terrena, con alcuni riferimenti ad eventi molto personali. La frequentazione della filosofia buddhista e della meditazione hanno giocato un ruolo importante in questa scelta, immagino.

In “Bird on the wire” Leonard Cohen cantava “Come un uccello sul filo, come un ubriaco in un coro di mezzanotte ho cercato a modo mio di essere libero”, mentre per te in “Screaming Parrot Blue”, l’uccellino è una metafora dell’ispirazione creativa. Mi parli di questa canzone?
La tua domanda ha detto più di quanto dirà la mia risposta. Posso solo aggiungere che l’ispirazione, in senso romantico, spesso è fastidiosa anche quando reca i suoi frutti. “Parrot please, don’t make me cry/I’d miss one of your kind”: in sostanza, nel rivolgermi all’ispirazione personificata o “animalificata!” Mi auguro di non ricevere “bad vibes”, idee funeste, insomma. Altrimenti non mi resterebbe altra scelta che cacciare il dannato uccellino!

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Spero di portare in giro il più possibile i brani del nuovo disco, Sono-Mama, che sto registrando proprio in questi mesi, anche se con una certa rilassatezza. La nuova formazione “elettrica” con Giulio Scavuzzo alla batteria mi stimola più della formula unplugged, e vorrei svilupparne le potenzialità.

 


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Cristina Chinaski

Cristina Chinaski nasce a Catania dove tuttora risiede. Ama viaggiare, fotografare, leggere, scrivere. Ha una passione viscerale per la musica, suona il pianoforte, colleziona vinili e adora il cinema.

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Cristina Chinaski

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