Questo mese per la rubrica Liber-Amanti, abbiamo scelto di fare un tuffo nel passato con il testo di “Favola di Polifemo e Galatea” di Luis De Góngora.
Un libro particolare, oscuro, scritto attorno al 1613 da Luis de Góngora y Argote nato a Cordova nel 1561. Religioso, poeta e drammaturgo spagnolo del Siglo de Oro ed il massimo esponente del culteranesimo.
“I più grandi, i rari, i veri maestri, compendiano in sé l’umanità; senza preoccuparsi di sé o delle proprie passioni, annullando la loro personalità per assorbirsi in quella degli altri, essi riproducono l’Universo, il quale si riflette nelle loro opere scintillante, vario, molteplice, come un cielo specchiantensi tutt’intero nel mare, con tutte le sue stelle e tutto il suo azzurro.” E’ così che Gustave Flaubert parla dei grandi poeti, ed è così che appare Luis de Góngora nei versi di Favola di Polifemo e Galatea. Poesia sublime, dove la parola conquista lo spazio nella finezza della trama, una trama stravolta, reinventata rispetto a quella classica che vede protagonisti Aci e Galatea. Ovidio nelle Metamorfosi scrive dell’amore tra la ninfa Galatea ed il bellissimo Aci, relegando Polifemo al ruolo del mostro, così come fa la mitologia, Góngora restituisce umanità a Polifemo. La natura della favola che avvolge la tela narrativa è intrisa di allegoria cosmogonica in cui le vicende del mito ed i suoi significati si fondono con l’origine dell’universo. Il disegno a bulino del protagonista, ci offre l’immagine dell’innamorato sofferente, dell’amore non corrisposto. La grandezza della sua figura è proporzionale all’amore che prova per la Ninfa, e tanto grande, tanto infelice si snoda tra versi di profonda bellezza. Questa maestosità non ricorda più quella del mostro, ma è come se tali fattezze fossero lo specchio di una difficoltà, la metafora di un muro tra i sentimenti da lui provati ed il ricamo del fisico minuto, delicato, di terracotta di Galatea. Lo scrittore affida allo sfondo di una Sicilia idillica, dai colori tenui, la creazione di una sinfonia inframezzata dalle fosche tinte delle parole, che orchestrano un perfetto connubio del chiaroscuro. Custode dell’Amore è il paesaggio, il bosco. Teatro dove l’Amore disvela le trame della passione di Aci e di Galatea, dell’ amore inappagato di Polifemo, dove gli elementi naturali sanno anche tacere. Al cospetto di tale sentimento, la natura s’arresta, il fiume s’ammutolisce, ed il tessuto narrativo è una simbiosi con tali simboli.
Galatea è come stregata da questo veleno d’aspide, e Polifemo veste i panni del poeta. Un poeta che parla d’amore, schiavo ed inerme dinnanzi a tale sentimento. Le sue parole sono urla sommesse dell’animo, versi scritti da un innamorato. Amore che resta racchiuso, non ricambiato dall’amata Galatea, che sfocia in violenza su Aci. Il macigno scagliato da Polifemo sul corpo del giovane adone, si configura come l’ultimo canto di un cigno sgraziato. Citando Milan Kundera: “Ma che cosa sono la bellezza o la bruttezza di fronte all’amore? Cos’è la bruttezza di un viso di fronte al sentimento nella cui grandezza si rispecchia l’assoluto stesso?”
E’ possibile trovare il testo edito da Einaudi o nella versione per Siciliano editore tradotta e e curata dal Prof. Rosario Trovato docente di lingua e letteratura spagnola all’Università di Catania.
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