Sciopero dei docenti universitari e reazioni dei rappresentati degli studenti. La lettera di Gilda Fusco, studentessa della Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento, apparsa in una versione ridotta sul quotidiano Il Trentino il 13 luglio 2017, all’indomani delle prime reazioni allo sciopero manifestate dai rappresentanti studenteschi.
Di seguito la lettera:
Tempismo perfetto, questa volta, quello dei rappresentanti degli studenti, che non hanno perso tempo: appena saputo che a settembre alcuni docenti potrebbero scioperare astenendosi dagli esami, non hanno esitato a puntare il dito contro la “categoria privilegiata” dei professori universitari. Motivo dello sciopero è la persistenza del blocco degli scatti degli stipendi, nato nel 2010 con decreto-legge del ministro Tremonti come misura una tantum, e rinnovato, di anno in anno, fino ad oggi.
È luogo comune che i docenti in generale, e quelli universitari in particolare, siano dei “privilegiati”: riceverebbero uno stipendio spropositato a fronte di un carico di lavoro irrisorio. Ma sul lavoro dei docenti, di ricerca e formazione, si fonda l’intera società: la trasmissione dei saperi, necessaria in ogni ambito della vita umana, è quella che ci ha consentito di raggiungere gli sviluppi (culturali e tecnologici) che spesso, nella vita quotidiana, diamo per scontati. La stessa democrazia, con le sue costituzioni e i suoi diritti sociali, civili e politici, si deve anche all’opera (oltre che dei rivoluzionari) di pensatori e studiosi che, secondo molti, perderebbero tempo dietro i libri senza produrre nulla di “concreto” per la collettività. Altri, si potrebbe replicare, sono i “privilegiati a torto”, e tanti gli esempi che si potrebbero portare.
I firmatari del documento che proclama lo sciopero sono sostanzialmente accusati di mettere i loro “privilegi” al di sopra del bene degli studenti, che hanno diritto di svolgere gli esami, cascasse il mondo, come sempre si è fatto. Ma i “barricaderos” trentini, in realtà, sono pochissimi: solo 38 su 618. Talmente pochi che i rappresentanti hanno potuto chiedere a tutti i coinvolti, uno per uno, se veramente sono intenzionati a scioperare o se per loro quella è “solo una presa di posizione simbolica” per tentare di vincere una sorta di braccio di ferro col governo senza però affaticarsi in scomode battaglie.
Ciò che preoccupa di più, tuttavia, è l’immagine (sempre più diffusa) che si ha di scioperi e proteste sociali in genere. «Se viene fatto a discapito di un’altra categoria uno sciopero non ha nulla di positivo», ha dichiarato uno dei rappresentanti. Eppure, come mostra la storia, uno sciopero per essere efficace ha bisogno proprio di “danneggiare” qualcuno. È esattamente quello che facevano i braccianti del primo ‘900: rifiutavano di coltivare la terra – anche per settimane, e non per qualche giorno – a discapito dei padroni e della produzione. Certo non si può paragonare gli studenti (i danneggiati di oggi) ai vecchi proprietari terrieri, ma è anche vero che oggi uno sciopero, per danneggiare il datore di lavoro o la controparte (il governo, nel caso dei docenti), è spesso costretto a creare disagio ad altre categorie sociali. Così gli scioperi dei trasporti colpiscono i pendolari, e quelli dei docenti nuocciono agli studenti. Dovrebbe saperlo bene la rappresentanza studentesca, che sostiene sempre la causa degli operatori delle mense universitarie, nonostante i loro scioperi creino anch’essi disagio a chi mangia a mensa per risparmiare. È brutto che lo sciopero crei danni, ma è così che funziona.
«Da parte nostra riteniamo assurdo che una battaglia di questo tipo venga promossa sulle spalle degli studenti – insistono i rappresentanti – senza coinvolgere i sindacati e dividendo la comunità universitaria che si era opposta alla riforma Gelmini». Ma questa grande “comunità universitaria che si era opposta alla riforma Gelmini”, che tra l’altro non riguardava gli stipendi dei professori, può davvero vantarsi di aver fatto tutto il possibile affinché la riforma venisse migliorata o, al limite, bocciata? D’altra parte se la “comunità universitaria” non è riuscita a smuovere il blocco degli stipendi, perché mai i docenti non dovrebbero usare altri mezzi di lotta? Siamo sicuri che siano stati i professori a dividere la comunità? O, piuttosto, sono state le altre componenti universitarie a “tradire” i docenti, lasciando che i loro diritti continuassero ad essere lesi, lamentandosi poi per lo sciopero di alcuni di loro, giunto dopo tre anni di petizioni presentate inutilmente al governo?
Oltretutto lo sciopero coinvolgerebbe un solo appello, ed è intenzione degli scioperanti chiedere alle strutture universitarie di svolgerne un altro posticipato, come ha ricordato anche il rettore. Perché gli studenti, anziché solidarizzare con i professori e pretendere che l’appello “fuori tempo” venga accettato dai vertici universitari – e semmai prendersela con questi ultimi se non acconsentissero – hanno scelto di attaccare i professori, che stanno solo chiedendo il rispetto dei loro diritti? Cosa dobbiamo aspettarci, a questo punto? Che i rappresentanti indicano uno sciopero contro i professori che hanno indetto uno sciopero?
Anzi, se i professori volessero trasformare la loro battaglia in una “lezione” per gli studenti, lo sciopero non dovrebbe riguardare un solo appello, ma continuare fino al conseguimento dell’obiettivo. Sarebbe un bell’esempio per noi, che ormai abbiamo dimenticato cosa significhi e cosa comporti, in termini di costi e benefici, una battaglia.
Una bella lezione: sulla nostra pelle, certo, ma anche per la nostra pelle.
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