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L’Accademia della Crusca sugli anglicismi: intervista a Stefania Iannizzotto

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Una petizione per invitare il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese a parlare un po’ di più, per favore, in italiano. La lingua italiana è la quarta più studiata al mondo. Oggi parole italiane portano con sé dappertutto la cucina, la musica, il design, la cultura e lo spirito del nostro paese. Invitano ad apprezzarlo, a conoscerlo meglio, a visitarlo”.

È così che Anna Maria Testa ha voluto dare inizio alla sua petizione #dilloinitaliano: l’uso delle parole anglosassoni è aumentato del 773% negli ultimi 8 anni, aggravando lo stato di salute della lingua italiana. In un Paese che parla poco le lingue questo non può che essere un ulteriore problema.

Già nel 2000 la pubblicista italiana si era occupata dell’argomento scrivendo “Farsi capire” e a 48 ore dal lancio della petizione si sono ottenute 25mila firme. «L’iniziativa della petizione – spiega –  è partita da piccoli segnali di insofferenza: chi mi ha scritto dicendo di non capire più quello che sente nei telegiornali, chi ha visto la nonna piangere allo sportello quando le hanno detto di rivolgersi al ministero del Welfare, non sapendo cosa volesse dire».

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Ad appoggiare la petizione l’Accademia della Crusca, che ha organizzato, in collaborazione con Coscienza Svizzera e la Società Dante Alighieri, il convegno “La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi” svoltosi il 23 e 24 febbraio a Firenze.

Troppo spesso termini che potrebbero essere chiari nella nostra lingua, vengono sostituiti con parole straniere, soprattutto da politica, amministrazioni pubbliche, comunicazioni delle imprese e giornalisti. Da “form” (modulo) a “Jobs Act” (legge sul lavoro), da “market share” (quota di mercato) a “fashion” (moda), al portale VeryBello! lanciato dal ministro dei Beni culturali e del Turismo, insieme al ministro delle Politiche Agricole e al commissario Expo. Il professore Claudio Marazzini, Presidente dell’Accademia, sostiene, dunque, la petizione con l’obbiettivo di restituire agli italiani la piena fiducia nella loro lingua: «capiamo che non possiamo sostituire parole come “spread”, ma non capisco perché si debba dire una bella location invece di un bel posto». Non si tratta di una crociata contro l’inglese, ma di un’azione a favore del bilinguismo e di una compresenza, dunque, che arricchisce il nostro registro senza renderlo goffo. Si è trattato, quindi, di far comprendere come sia necessario mantenere una posizione di mezzo tra l’uso eccessivo e in non uso degli anglicismi, di monitorare i neologismi per capire quali conservare e quali sostituire con la lingua italiana in base alla loro funzionalità, di ricercare il giusto equivalente italiano chiaro e trasparente e di capire quali di questi forestierismi è di passaggio e quale è, invece, da inserire nel vocabolario. Insomma un incontro per una “Neologia consapevole”, come la “Néologie Raisonnée” di cui scriveva Bernard Quemada in un articolo del 1971.

Stefania Iannizzotto, assegnista di ricerca presso l’Accademia, ci ha chiarito quale sia la posizione della Crusca in merito all’argomento:

Il professor Marazzini ha affermato che gli italiani sono più tentati dagli anglicismi e dai forestierismi, secondo lei perché?

«Secondo me è un pò una moda: Marazzini ha cercato di ricostruire le motivazioni di questa tendenza tornando storicamente indietro e, in effetti, la lingua italiana unica per tutta la penisola si è sviluppata relativamente di recente. Siamo nazione da molto meno tempo degli altri, quindi abbiamo un’identità culturale meno sviluppata. Inoltre c’è sempre stata questa compresenza tra dialetto e italiano che ha fatto si che l’utilizzo dell’inglese, o di un altro codice linguistico, non sembrasse così errato».

È possibile che – come dice Anna Maria Testa – tale utilizzo sia dettato da provincialismo e che quindi serva come «abracadabra» per sembrare quel che non si è?

«Certo, si aggiunge, ovviamente, la tendenza ad apparire più brillanti, soprattutto in ambito televisivo e giornalistico. Un esempio è la politica che ha acquisito, infatti, le modalità del marketing con l’obbiettivo di sviluppare un’attrattiva su di sé. Come un’insegna luminosa: attrae il destinatario ma, poco dopo, egli stesso si rende conto della mancanza di contenuti dietro l’etichetta. Con questa forzatura grottesca nell’inserire termini inglesi ovunque ci si rende, spesso, ridicoli, fino ad arrivare al paradosso. Inoltre il messaggio non risulta chiaro e trasparente, il destinatario non ne rimane convinto e il politico ottiene esattamente il risultato opposto rispetto a quello previsto e desiderato!».

È possibile che i politici utilizzino questo tipo di linguaggio per mascherare una forma di burocratese?

«Si, può darsi. In un certo senso si tratta, anche, di una forma di lealtà nei confronti di chi riceve il messaggio. Che sia da parte di un politico, o da parte di una pubblicità. Anche in ospedale, dove nella maggior parte dei casi si parla con persone anziane, quando si fa il “triage” siamo sicuri che tutti capiscano di cosa si parla? Partiamo dalla considerazione che non sempre i termini usati sono trasparenti. Ovviamente il fatto che la Crusca appoggi la petizione non limita la libertà di scelta del registro linguistico da utilizzare, si vuole solo porre un interrogativo nell’interlocutore. Non si vuole e non si può imporre una lista di termini italiani da usare come accadeva in passato. Molti utenti hanno avuto timore che, abbracciando questa campagna, l’Accademia volesse tornare indietro a delle politiche puriste di stampo fascista, ma la lingua è in continua evoluzione, non si può ingabbiare. Si tratta semplicemente di avere buon senso linguistico al fine di non sembrare ridicoli. Ultimamente, ad esempio, mi è capitato di sentir parlare due vetriniste e, di italiano, nel loro discorso, c’era ben poco! Moltissimi termini come “make up”, “stok manager”, “light room” distorte in mezzo all’italiano e all’accento milanese  le facevano apparire particolarmente goffe, ad essere sinceri».

Michele Serra afferma su “la Repubblica” del 20 febbraio che «alla corrosione esterna della nostra lingua da parte di un simil-inglese spesso non necessario, e pigramente imitativo, si aggiunge un “aggressione” interna più subdola e forse ancora più pericolosa – riferendosi al ripiegamento dialettale e vernacolare – percepibile perfino nei palinsesti Rai, un tempo autentico baluardo della dizione corretta». Lei cosa ne pensa? Non sarebbe corretto, invece, salvaguardare i dialetti e non perdere del tutto questo tassello culturale?

«Avendo nel nostro passato linguistico una lunga tradizione di parlato dialettale e avendo mantenuto questi tratti caratteristici è ovvio che nessuno, a meno che non abbia seguito un corso specifico, è in grado di mantenere una perfetta dizione. Gli stessi professori del convegno lasciavano intuire la loro origine. Anche qui, quello contro cui ci battiamo, è l’abuso. È importante capire il contesto e scegliere di conseguenza un parlato più o meno formale. Il dialetto e la marcatura vernacolare ci può stare assolutamente in un contesto comico, scherzoso e dunque nel caso in cui si tratti di una scelta voluta e consapevole».

Severgnini si dice poco preoccupato delle abbreviazioni nei messaggini, ma la sostituzione, ad esempio, della “k” con il “ch” o l’utilizzo errato o inesistente di accenti e apostrofi non potrebbe essere ulteriore motivo di corrosione dell’italiano? Si potrebbe, un giorno, iniziare una petizione anche al riguardo?

«Anche in questo caso dipende dall’utilizzo che si fa. Nell’italiano antico la “k” c’era e per risparmiare pergamena esistevano già le abbreviazioni. Il problema non si pone nei messaggi ma in altri contesti come i temi scolastici. Se ci fossero lì delle abbreviazioni allora sarebbe un vero problema! In quel caso la petizione sarebbe necessaria! Per quanto riguarda l’accento, se noi sapessimo che perchè ha la “e” finale chiusa e lo sapessimo perché nel pronunciarlo riuscissimo veramente a chiudere la “e” allora lo ricorderemmo anche nello scritto. Non diamo all’accento il valore giusto e questo dipende anche dal fatto che, leggendo molto poco, si ha la scarsa abitudine di vedere la parola scritta. Se si leggesse di più si ricorderebbe la forma della parola e si scriverebbe, di conseguenza, nel modo corretto. Un esempio è il “qual è” che è spesso soggetto a errore. In ogni caso non saranno i messaggini a rovinare l’italiano. Anche in questo caso è da considerare il contesto e la consapevolezza della scelta. È stata fatta una critica ad Anna Maria Testa perché nello slogan della petizione “dillo in italiano” era scritto in maiuscolo con i puntini sulle “i”, ma essendo una scelta voluta della stessa autrice è accettabile. L’errore non è dovuto ad una scarsa conoscenza della grammatica!».

Il messaggio, insomma, è un po’ quello dato da Manzoni quando gli chiesero quale fosse il segreto per scrivere bene e lui rispose “pensarci su”.

Pensateci su e se siete d’accordo aderite all’iniziativa. Ad oggi la petizione ha ottenuto più di 66.000 adesioni. Chiunque può aderire e mettere la propria firma per sostenere la causa, basta collegarsi al sito change.org!